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martedì 16 aprile 2024 ..:: Presentazione del libro Soviet Piano al MaMu ::..   Login
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 L. Ciammarughi e F.M. Colombo Presentano "Soviet Piano" al MaMu di Milano Riduci

 

 

Ritorno ancora, da cronista, a raccontarvi fedelmente lo svolgimento di un avvenimento culturale, questa volta attinente alla presentazione di un libro recentemente scritto da Luca Ciammarughi: Soviet Piano - I pianisti dalla rivoluzione d'ottobre alla guerra fredda. Particolarmente interessato perché giunto quasi alla fine della sua lettura, nel torrido inizio serata del 5 luglio mi sono recato al MaMu di Milano, in Via Francesco Soave al civico 3, già per me teatro di tanti altri incontri, per gustarmi sino in fondo la discussione. Oltre all'autore ha partecipato Francesco Maria Colombo, figura culturale di primo piano del nostro paese, scrittore, direttore d'orchestra, fotografo, saggista, critico musicale e conduttore televisivo. Soviet Piano è quindi oggi sotto i riflettori, un testo nato in realtà su suggerimento dell'editore Zecchini, il quale si era accorto che nel precedente "Da Benedetti Michelangeli alla Argerich - Trent'anni con i grandi pianisti" le parti dedicate da Ciammarughi ai pianisti russi erano particolarmente appassionate. In quel testo aveva parlato di Lazar' Berman, Shura Cherkassky e di tutto un mondo molto affascinante non solo per gli addetti ai lavori, arricchito con frequenti glosse riguardanti la tecnica, la "cinetica", intesa anche come modo di muoversi sul palcoscenico. Un tesi appare subito chiara: il pianismo russo, come il teatro e il balletto, è orientato a una concezione piuttosto diversa da quella occidentale. La chiave di volta ci viene da un non pianista, il ballerino Rudol'f Nureev, che in una dichiarazione ha spiegato quali sono, secondo lui, le differenze d'approccio al momento artistico da parte degli occidentali e dei russi (o degli orientali). Senza dimenticare che Nureev era tartaro, come Rachmaninov, e forse per questo ancora più estremo. Il libro, tuttavia, non si concentra soltanto sulle caratteristiche tecnico-musicali dei pianisti ma soprattutto sul loro rapporto con il potere sovietico.

 



Una volta quindi ricevuto l'"input" dall'editore, all'autore è piaciuto dare un taglio un po' diverso dai soliti libri scritti sull'interpretazione, mettendo l'arte in connessione con la politica e la società. Il contesto sovietico appare, nella sua visione, da un lato inquietante e dall'altro affascinante, nell'economia di un trattato ritenuto da alcuni critici come abbastanza polemico verso il comunismo, mentre in realtà è un po' "double face". Si riconoscono i crimini che il regime sovietico mise in atto verso molti di questi pianisti, pur se non sempre evidenti come quelli perpetrati ai danni degli scrittori e uomini di teatro, che vennero in più occasioni fucilati. Mejerchol'd e Aleksandr Blok morirono veramente male, Majakóvski si suicidò. Verso gli uomini di lettere ci fu un tipo di accanimento certamente più manifesto, legato al fatto che la parola è un mezzo d'espressione molto più facilmente censurabile. Va da sé che quando si scrivono testi contro il regime si è parecchio più esposti alle sue sanzioni. Differente è il caso di un musicista, soprattutto di uno strumentista che lavora con opere altrui, il quale risulta molto più difficile da attaccare proprio perchè la musica è un qualcosa di più d'impalpabile della letteratura. Già Grillparzer nell'epoca della restaurazione diceva a Beethoven: "beati voi musicisti perché potete protestare senza l'uso delle parole", lo facevano attraverso una musica che fosse in qualche modo rivoluzionaria o che mostrasse un forte orgoglio.

 



Questo senso di "ubris", di tracotanza e sfida nei confronti di un'epoca particolarmente buia lo si sente in Beethoven ma anche in Schubert. Con i pianisti invece la persecuzione fu meno palese, non furono mai fucilati, non avvennero omicidii ma spesso intorno a loro fu fatta "tabula rasa". Si verificarono invece condanne a morte di loro parenti, mariti, mogli, padri (come nel caso di Svjatoslav Richter, in quanto tedesco), verso il padre e il marito di Marija Grinberg, grandissima pianista che incise, prima tra le donne, le trentadue Sonate di Beethoven. Ambiguamente, se da un lato erano molto utili al regime dal punto di vista della propaganda, dall'altro erano avversati. Nel grande scontro che ci fu principalmente con la guerra fredda, i pianisti venivano lusingati con dei premi (Premio Stalin, Premio Lenin) ma anche costantemente tenuti sul filo del rasoio. Fu un tipo di trattamento riservato anche a molti compositori, Šostakovič e Prokof'ev su tutti; riguardo il primo è interessante notare come il momento più critico del suo percorso artistico, coincidente con la rappresentazione di "Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk", sia stato legato a un'opera, genere in cui oltre alla musica c'è anche un libretto, una storia. Ancora una volta la questione delle parole ritorna. In effetti, al di là dell'idea di una musica ritenuta caotica, che fu poi il motivo della critica avanzata nei suoi confronti, nella recensione negativa scritta sulla Pravda, il giornale di regime, si diceva che la vicenda metteva di fronte al popolo sovietico troppe tematiche proibite, parlando di prostituzione, di decadenza, soprattutto questo elemento di rifiuto in riferimento a quella occidentale.

 



Il regime sovietico rigettò alcuni autori francesi come Debussy e Ravel, i quali rappresentavano un qualcosa di effeminato, di edonista, essendo simboli della decadenza borghese. Svjatoslav Richter era l'unico pianista che potesse tenere nella propria stanza da bagno dei profumi occidentali, in un appartamento che aveva qualche stanza in più rispetto a quelli medi, che erano piccolissimi. Lui però era considerato nella sua grandezza quasi un semi-Dio. Francesco Maria Colombo, da appassionato lettore e commentatore, ha trovato in Soviet Piano un elemento di cui l'autore non parla ma che a lui spetta sottolineare, cioè un modo di fare storiografia musicale estremamente moderno. Questo genere letterario è per lui una delle cose più "tragiche" che si possano immaginare. Chi abbia letto libri, anche di grandi studiosi e analisti del soggetto musicale, incontra o molta superficialità o molta noia nello scavo in questioni anche settoriali, laddove invece un tema così fortemente legato alla storia, con dei connotati eroico-tragici come quello del pianismo durante l'epoca sovietica, viene affrontato da Luca Ciammarughi con un'attitudine eminentemente contemporanea. Un approccio il suo che si giova di un tipo di comunicazione che non è quella dello storico, pur essendo in possesso di tutte le nozioni, della profondità e capacità di scavo, ma quella del recensore, che è prima di tutto un "chroniqueur" impegnato ad andare, vedere e raccontare.

 



Una cosa che colpisce del libro sono le descrizioni di antiche registrazioni, per esempio quella del Clavicembalo ben temperato eseguito da Feinberg, da tutti conosciuta nel mondo pianistico come un qualcosa di prodigioso, di problematico su cui si potrebbe parlare all'infinito. Sono presentate con immediatezza, con una prosa vivida, scalpitante, come se l'autore avesse sentito il concerto il giorno prima e ce lo raccontasse. È un riscontro che fa estremamente piacere in quanto viene a essere una via d'uscita da quella che negli ultimi vent'anni appariva come un "empasse" in cui si trovava la narrazione della musica. "Si assiste a una specie di divaricazione", dice Colombo, "da un lato ci sono i blog, gestiti in gran parte da incompetenti che discettano sul si bemolle del soprano eccetera, e dall'altro c'è invece una ricerca molto accademica. Questa situazione di stallo si può risolvere con una figura completamente nuova, rappresentata al meglio da Luca Ciammarughi nel panorama della cultura musicale italiana, cioè di uno "story teller" che si basa non sulla teoria ma principalmente sulla pratica". Emerge il racconto di un pianista concertista che ha tuffato le mani nella materia e che usa gli odierni strumenti d'informazione. Un'assoluta novità, che Colombo ha grandemente apprezzato permettendogli di leggere "Soviet Piano" quasi come se a ogni pagina si aspettasse una sorpresa.

 



Tale spontaneità si traduce in un grande affresco sull'epoca sovietica e il pianoforte. La consequenziale domanda che potremmo porre all'autore è se davvero esista un Soviet Piano, cioè una situazione molto composita che si para davanti al lettore. In questa troviamo caratteri e personalità molto vari; un qualcosa deve però legare tutto questo, se pensiamo che la storia sovietica (dal 1917 al 1989) ha esattamente la durata della vita di una persona in quell'epoca. Qual è allora l'elemento principe che unifica tutto questo? Ci sono tre componenti fondamentali che vengono fuori da questo libro, una consiste nel fatto che la musica in Russia ha rivestito una grande importanza per i detentori del potere, e quindi gli amministratori della vita culturale, tale da non avere euguali in nessun'altra parte del mondo. Sono sicuramente esistiti formidabili centri musicali nel '900, come Vienna, Berlino o la Parigi degli anni '20 - '30, tuttavia ciò è nato dall'estro, dall'improvvisazione, dalla fantasia dei singoli mentre nell'Unione Sovietica la musica era un affare di stato. Questo ha avuto un duplice risvolto: da una parte tutti gli artisti sono stati messi di fronte al potere, insieme a tutta la vita musicale che lì doveva fare i conti con il confronto spesso drammatico con il regime, dall'altra dando alla musica un prestigio che non ha mai avuto in nessun'altra civiltà mondiale, nemmeno nelle Corti poiché in queste il musicista era un subalterno.

 



Pensiamo a Šostakovič, che andava in giro per il mondo a portare la musica sovietica, o Richter, il quale insieme a Ėmil' Gilel's è stato il più importante pianista in ambito internazionale di quel periodo. Entrambi erano ambasciatori, rappresentanti di un mondo. Colombo racconta un ricordo che evidentemente è rimasto molto vivido nella sua memoria. Era il 1981, aveva sedici anni quando vide Evgenij Mravinskij, il più grande direttore d'orchestra russo. Questi arrivò sul podio con una grande quantità di medaglie appuntate sul frac e questo gli fece un'enorme impressione. A quell'epoca non sapeva chi fosse, lo incontrò per la prima volta alla filarmonica di Leningrado. Colombo ebbe sentore che l'essere musicista in Russia fosse circonfuso di un prestigio enorme che doveva essere difeso. Come conseguenza pratica, questa concezione interviene nella definizione di uno stile del pianoforte sovietico, nella formazione di una scuola che doveva per forza di cose eccellere. Le grandi scuole pianistiche negli Stati Uniti, Il Curtis Institute di Philadelphia o la Juilliard School di New York, erano delle istituzioni private nate da grandi finanziatori. Al Curtis si formò Shura Cherkassky, uno dei più grandi pianisti del secolo scorso, Józef Hofmann, il direttore d'orchestra Fritz Reiner. Era un incredibile cenacolo di cultura nato da una miliardaria americana, Mary Louise Curtis Bok, cui piacevano i giovani musicisti.

 



Giancarlo Menotti stesso studiò in quell'istituto. Era compagno di scuola di Cherkassky, che ricorda come un personaggio di enorme talento ma un po' svanito, strano, somigliante alla figura del principe Myškin del noto romanzo dostoevskijano "L'idiota". Nell'Unione Sovietica formare un musicista era come plasmare delle ginnaste: la grande Olga Korbut o Nadia Comăneci, per esempio, che dovevano assolutamente eccellere nel loro campo. Si è così approdati alla creazione di una scuola che ha un tratto distintivo fortissimo, vale a dire il rifiuto di tutto ciò che siamo abituati a considerare "anima russa". Possiamo citare tanti pianisti russi di prima grandezza, Richter, Gilel's, Marija Judina, Gol'denvejzer, arrivando poi ad Aškenazi, Berman, Egorov, Magaloff, nei quali lo stile esecutivo era di un assoluto rigore e rifiuto dei fronzoli, al pari, estensivamente, della scuola pianistica sovietica. Vigeva in questa un senso inflessibile della disciplina, dell'incondizionato rispetto filologico della partitura, elemento poi sviluppato da molti altri musicisti come Valery Afanassiev, Koroliov, Lubimov, non come ricerca intellettuale ma come formazione stilistica. È successo però che in questi artisti la cosiddetta "anima russa", per lungo tempo confinata, è diventata per questo ancora più struggente, aderente a un complesso di lontananza, di fuga, di nostalgia. Rachmaninov, sia nella musica che scrive sia in quella che esegue, ci dà questo senso di malinconia, di un qualcosa che è lontano e abbiamo perduto.

 



Emerge moltissimo negli "émigré" come Horowitz, Egorov, altrettanto in Shura Cherkassky. In un bellissimo capitolo del libro si narrano tre particolari episodi avvenuti a Horowitz, Cherkassky e Magaloff. Il primo vide defenestrato il pianoforte dal suo appartamento, al secondo passò una pallottola a brevissima distanza dalla testa e il terzo fuggì su una slitta verso la Finlandia. Quest'ultimo, ancor prima che artista fu uomo di grandissima eleganza e supremo charme. Sono episodi, al limite del tragicomico, che ci parlano di uomini afflitti per il distacco dalla patria. Cherkassky fuggì all'età di nove anni, quando già i suoi genitori erano stati presi di mira dai bolscevichi, cosa che di frequente avveniva alle famiglie più abbienti nella prima parte della rivoluzione, durante la cosiddetta guerra dei palazzi. Nella registrazione di Richter delle "Stagioni" Op. 37 di Čajkovskij, questo stato d'animo affiora in un modo dolorosissimo. Chiunque abbia conosciuto Svjatoslav Richter a un concerto, ha potuto vedere un volto che faceva paura, che intimoriva, una specie di statua, ma nell'interpretazione di quest'opera è come se questa maschera tragica fosse caduta. Quando arrivava sul palcoscenico mostrava una faccia impassibile, quasi schifata, nel corso degli applausi non sorrideva mai. Tuttavia camminava con dei passettini molto effemminati, come se quella struttura rigida, anche molto virile, che voleva presentare al pubblico gli fosse curiosamente sfuggita di mano.

 



Lo stesso avveniva per Shura Cherkassky, che aveva l'incedere di una bambolina russa. Nelle Stagioni di Čajkovskij, brano intimista, Richter non si fa più ambasciatore di nulla, è solamente un uomo che dialoga con le ombre di se stesso, con tutto il non detto della sua esistenza. Nel corso dell'epoca sovietica, la nostalgia per l'anima russa esce per vie traverse in alcuni "outsider". Il più importante di tutti è Vladimir Sofronickij perché in lui si riconosce l'estrema soggettività, quasi mancanza di equilibrio, come criterio artistico. È stato un gigante del pianoforte che non andava in giro per il mondo, non dava concerti alla Carnegie Hall o intraprendeva tournée a Berlino, confinato com'era alle sale del museo Skrjabin di Mosca, dove poi sono state realizzate quasi tutte le sue registrazioni dal vivo. Lì suonava davanti a una specie di cenacolo d'iniziati legato anche alla follia del personaggio. Alla fine vittima della droga e dell'alcool, realizzò una specie di "samizdat" musicale, una resistenza. Chi abbia letto le memorie di Šostakovič, raccolte da Volkov, o anche alcune frasi delle memorie di Prokof'ev al suo rientro in Unione Sovietica, si rende conto che la musica è sempre stata una forma di resistenza all'interno del potere. Nel continuo confronto con esso alla fine c'è una scappatoia, rappresentata dalla grande tradizione russa: Čajkovskij e Rachmaninov vengono comunque eseguiti da tutti i pianisti russi, diventando parte quasi obbligatoria del repertorio. In Feinberg c'è un Bach completamente sfatto nel colore. Nel caso più incredibile di tutti troviamo la vicenda terrena di una donna, Marija Judina, che sfidò Stalin, e che da questo fu profondamente amata.

 



Nel 1943 il dittatore ascoltò alla radio il Concerto K 488 di Mozart eseguito da lei, restando così impressionato da esigerne il disco, che però non esisteva in quanto ciò che aveva sentito era una diretta radiofonica. Quella richiesta, fatta da un feroce tiranno, intimorì così tanto da far realizzare la registrazione in una notte, poi recapitata a Stalin, il quale conservò quel disco sino alla fine: lo ritrovarono accanto al suo letto di morte, sul fonografo. Leggenda o realtà? Si dice che dal vivo la Judina fosse una donna impressionante, si vestiva come una specie di monaca russa, con un'enorme croce appesa al collo. Stalin le telefonò e lei gli disse, dimostrando estremo coraggio: "Pregherò giorno e notte per lei e chiederò al Signore che perdoni i suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione". Taluni comunque sostengono che i diversi aneddoti narrati dallo scrittore, giornalista e musicologo russo Volkov, sono da prendere con le pinze. In realtà, la tradizione orale rivestiva grande importanza in Russia poiché in quel periodo nulla si poteva scrivere. Per questo motivo nel libro di Ciammarughi vengono riportate delle cose sulla base di racconti che non sempre sono totalmente verificati. A Marija Judina piaceva mescolare musica e letteratura, era molto amica di Pasternak e durante i concerti leggeva delle sue poesie. Anche lui era un intellettuale un po' in bilico, pensiamo al fatto che "Il dottor Živago", che fruttò all'autore il Premio Nobel per la letteratura, fu pubblicato in Italia, prima che in Russia.

 



Si apre il caso della categoria dei proscritti, artisti che vengono sopportati o mal sopportati. Il caso della Judina è quasi come l'innocente sopportato dallo zar nel Boris Godunov, lei figurava come una veggente, una sapiente che viene tollerata dal tiranno. La religiosità era bandita dall'Unione Sovietica. L'altra categoria sotto tiro era quella degli omosessuali, nei loro confronti c'è stata una persecuzione che ha portato a esiti umani tragici sempre più numerosi nel tempo. La cosa singolare è che la civiltà sovietica era iniziata all'insegna di un permissivismo che faceva parte del DNA della rivoluzione. Se leggiamo la produzione letteraria sovietica dal 1917 al 1925, la troviamo piena di sesso, di costumi liberi e di tutto quello che possiamo definire trasgressione. Le cose cambiano radicalmente quando prende il potere Stalin e ancor più Breznev, con una severa limitazione della libertà del costume sessuale. A quel punto gli omosessuali avevano tre possibilità di scelta, una era sposarsi e far finta di niente (il caso di Sviatoslav Richter), l'altra di rovinarsi l'esistenza o ancora, come Egorov, di fuggire abbracciando un destino che è il più terribile per un essere umano, cioè scegliere il paese della libertà dove sfogare se stesso, la propria personalità artistica e poi morire. "Jurij Egorov è una specie di Nureev del pianoforte", afferma Luca Ciammarughi.

 



Un'altra categoria braccata furono gli ebrei e molti di questi grandi pianisti lo erano. Per grandi transfughi come Horowitz e Cherkassky si prospettava o la costruzione di un personaggio di facciata o l'allontanamento dalla Russia. Anche la straordinaria Maria Grinber era ebrea, come uno dei maggiori virtuosi, se non il più grande della storia: Josef Lhévinne. Lazar' Berman dice a chiare lettere che lui non capiva perché in conservatorio non riceveva dei premi, pur essendo lodato e magnificato. Quando poi venne il momento di conferirgliene uno, mandandolo per esempio all'estero o facendolo partecipare a qualche concorso, veniva bloccato. Più tardi ne capi la ragione, realizzando che si era verificata una recrudescenza dell'odio verso gli ebrei dagli anni '40 circa. La prima fase bolscevica portò davvero a un sovvertimento, con la rivoluzione di febbraio venne abolita la pena di morte, data la possibilità di votare alle donne, nel governo bolscevico entrarono omosessuali ed ebrei, cosa impensabile nell'epoca zarista. Al repentino cambiamento seguì però la restaurazione, la reazione. Una cosa però resta, e va avanti per tutta l'epoca sovietica, il fatto che, artisticamente parlando, le donne sono state considerate pari agli uomini. In occidente abbiamo figure anche eroiche, come Myra Hess, artista ebrea che suonò sotto i bombardamenti al British Museum durante la guerra. Ci sono tante individualità artistiche femminili, non c'è però una civiltà che le abbia sistematicamente rappresentate come la sovietica.

 



Guardando le fotografie delle classi di pianoforte di Neuhaus, le donne sono tantissime, come altrettanto numerosi furono i talenti femminili. A Francesco Maria Colombo piace citarne una in particolare, poco o per nulla ricordata: Rosa Tamarkina. Era una pianista incredibile, moglie di Gilel's, donna bellissima somigliante a Louise Brooks (attrice, ballerina e showgirl statunitense) che portava un'acconciatura dei capelli a caschetto, poi ripresa da Crepax per il suo personaggio di Valentina. Aveva un talento enorme e incise alcuni dischi. Molte di queste pianiste sono ricordate in Soviet Piano. Stimolato da una domanda, Luca Ciammarughi sottolinea la complessità del tema, sviscerata da un testo il cui titolo è provocatorio: "Io mi sarei aspettato anche qualche polemica perché pensate se intitolassimo un libro sui pianisti tedeschi Nazi Piano. Sarebbe un qualcosa di sconvolgente! Naturalmente non voglio parificare i due regimi, che sono completamente diversi. Il nazista fu scientifico nella sua crudeltà". In realtà c'è qualcosa nel pianismo sovietico che affonda le sue radici nelle origini della scuola russa, entra quindi in gioco il conservatorio di San Pietroburgo che fu fondato da Anton Rubinstein. Esistono dei cardini che affondano in un periodo pre-sovietico. L'elemento che contraddistingue questa scuola è l'estrema disciplina, derivante da un sistema fondato da quel genio che fu Lunačarskij, ministro della cultura che negli anni '20 lo mise a punto.

 



Un apparato scolastico assolutamente eccezionale, ne è convinto Ciammarughi, che ha intervistato diversi pianisti legati a quella scuola come Boris Bloch, Boris Petrušanskij e altri. Ancora oggi il conservatorio di Mosca ha questa granitica educazione per cui nulla viene concesso all'approssimazione, al caso, ma tutto è assolutamente mirato al fine di dedicare la propria vita alla missione della musica, ben lo sa chi intraprende questo percorso. Cio nonostante, alcuni pianisti deviano da questo seppur elevatissimo standard per raggiungere il livello dell'arte. Ce ne sono a centinaia in possesso di una tecnica fenomenale, a volte ascoltarli in sequenza può risultare anche noioso proprio perché hanno questa impostazione quasi tecnocratica, come avviene spesso nei regimi o anche al di fuori di essi. In ogni epoca si riscontra, a fronte di un livello tecnico eccellente, una non corrispondente fantasia o personalità interpretativa. In questa schiera così folta di pianisti, c'è però sempre l'individualista che in qualche modo reagisce a questi dettami ritrovando una libertà "antica", la quale prescinde da una scuola eccessivamente disciplinata. Soprattutto nell'epoca della guerra fredda, i pianisti sovietici erano in diversi casi macchine da battaglia che non seguivano neanche più lo stile dell'autore, ma suonavano tutto molto martellato, in una maniera tecnologica efficace ma anche piuttosto disturbante per coloro che invece ricercavano nell'arte qualcosa di più.

 



"In questo Heinrich Neuhaus è molto chiaro", dice Ciammarughi, "affermando che non è importante l'individualismo ma l'individualità deve comunque sopravvivere all'interno di questa catena di montaggio". Un "leitmotiv" che ricorre in tutti quelli che se ne vanno dalla Russia è il bisogno disperato di trovare una dimensione personale, all'interno di una produzione quasi in serie di strumentisti. È un tema molto caro anche a Rudol'f Nureev, cui l'autore del libro dedica un intero capitolo dimostrando di essere egli stesso particolarmente sensibile all'argomento. Lo è tanto da leggere un passaggio del suo testo dove il grande ballerino chiarisce la differenza tra l'arte occidentale e quella russa. Per comprendere più a fondo questa discrepanza, può essere utile richiamare le teorie del teatro di Stanislavskij, che nel bellissimo libro "Il lavoro dell'attore su se stesso" parla della necessità da parte dell'attore di rievocare, nel momento della recitazione, una serie di emozioni che devono essere prese dal proprio bagaglio mnemonico, relative all'infanzia, all'adolescenza, soprattutto alla giovinezza. La gioventù è, infatti, è una stagione della vita in cui sentiamo le emozioni con particolare intensità. Stanislavskij sostiene che l'attore non può rimanere completamente lucido, ma deve in qualche modo rievocare queste impressioni quasi archetipiche e viscerali. Ciò è all'opposto di un'altra teoria del teatro, espressa da Denis Diderot nel "Paradosso sull'attore", per cui esso non deve mai emozionarsi ma commuovere il pubblico rimanendo assolutamente lucido e freddissimo.

 



Nureev in questa dichiarazione propende molto per la teoria di Stanislavskij. Le sue riflessioni riguardano la teoria dell'indipendenza delle varie parti del corpo, financo gli occhi, seguita in occidente, contro quella russa, volta invece allo sviluppo complessivo della meccanica del corpo. È una dottrina che ritroviamo anche nel pianismo russo, avente le sue radici pure in Liszt, che non usa tantissimo l'articolazione delle dita come la scuola francese con il suo "jeu perlè". Piuttosto, il corpo deve rimanere sostanzialmente passivo mentre le dita si muovono creando un suono molto articolato e brillante, queste devono essere usate come delle colonne impegnate a reggere un peso. Grande è quindi il lavoro che è chiamato a compiere tutto il corpo, compreso il busto e le spalle. In un pianista come Berman l'importanza della pancia e di tutta la parte centrale del corpo è molto maggiore rispetto a quella della scuola occidentale. Concezione molto diversa da quella del grande Arturo Benedetti Michelangeli, in cui vigeva un pianismo ipercontrollato e anche, se vogliamo, un po' rigido, per quanto sublime nei risultati. Questo è un tratto che indubbiamente caratterizza i russi e la loro scuola, nell'ambito della quale si manifestano diverse concezioni estetiche, dove si va da un tipo di meccanismo esageratamente tecnologico a una maggiore fantasia, come in Gilel's (straordinario il suo Debussy) o Richter nell'interpretazione di Ravel. Dal 1989 sono passati quasi trent'anni, cosa è rimasto del pianismo sovietico?

 



Ci sono alcuni artisti di grande rilievo, come Sokolov o Pletnëv (tra i maggiori viventi), nati e formati in Unione Sovietica. Lo stesso Kissin ha questi natali. Un destino singolare ha avuto Andrej Gavrilov, pianista incredibilmente talentuoso che poi ha visto svanire la sua fenomenale tecnica, come si può vedere da taluni video su YouTube. Lui racconta di essere stato psicologicamente massacrato dal regime, subendo dei "trattamenti" psichiatrici particolari, anche un avvelenamento. Un altro pianista che è un po' sparito dalla scena è Bunin. All'inizio portatore, negli anni in cui il pianoforte in occidente mostrava un lato oggettivo la cui epitome si sostanziava in Maurizio Pollini, una marcata soggettività che poi si è sviluppata andando a disperdersi nei rivoli di oggi, dove il gusto imperante è molto quello del "pianobar", seppur di altissimo livello. Si privilegia un tipo di soggettività che richiama il "lo faccio come mi piace", il quale non sempre è un criterio che conduce a risultati accettabili. Chi abbia ascoltato la beethoveniana "Hammerklavier" della più famosa pianista cinese, capisce cosa intende Colombo. Si tratta di un'artista per tanti versi meravigliosa, che però adotta il criterio di un soggettivismo incondizionato. Un tema cruciale questo, secondo Ciammarughi, poiché la tensione precedentemente stabilita dal regime, di bastone e carota, è come se con la caduta dell'URSS si fosse allentata, determinando una specie di sgretolamento di certi valori.

 



In molti di questi pianisti è dunque insorta la voglia disperata di vivere e dimenticare completamente la ferrea disciplina artistica sotto la quale erano cresciuti. Caso emblematico è ancora quello del citato Gavrilov, pianista eccezionale che, dopo pochi anni dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica, smette quasi di studiare avendo bisogno d'una ventata d'ossigeno, senza che mai ci sia stata la possibilità di tornare indietro. Un altro caso, non russo ma comunque di un paese legato all'est, è quello di Ivo Pogorelić. "A questo punto ci sarebbe da fare un discorso molto complesso sull'arte", dice Luca Ciammarughi, "anche come sublimazione di una serie di cose proibite". Il discorso sull'omosessualità è uno dei più rilevanti. Nel caso di Egorov, la "débauche" cui lui andò incontro in occidente, vivendo di rendita per quanto aveva studiato in Russia, fu davvero sfrenata. La madre al telefono gli diceva di aver ascoltato il suo disco, dichiarava il suo apprezzamento affermando tuttavia che, quando era studente, suonava anche meglio. Una volta arrivato ad Amsterdam, Egorov iniziò ad assumere droghe, fare sesso sfrenato nelle saune, viaggi a New York nel fine settimana. È un comportamento presente in molti russi, con l'esplosione improvvisa di condotte senza misura dopo tanti anni di frustrazione. In questo modo, il rapporto tra arte e vita risulta completamente falsato prima in un senso, ovvero tutto per l'arte e niente per la vita, mentre in seguito si capovolge.

 



Durante il regime sovietico l'esistenza era piuttosto grigia per cui l'arte rappresentava una sorta di evasione, ma anche di ragione di vita in mancanza d'altro. Quando la dittatura crolla, avviene uno sbilanciamento in senso opposto che porta al lasciarsi andare completamente, come nel caso di Egorov, di Bunin, che andò a vivere in Giappone facendo perdere completamente le tracce, di Gavrilov e altri. Alcuni pianisti hanno invece deciso di prodursi, inaspettatamente, in interpretazioni ipereccentriche, quando prima erano molto ligi a dei canoni, come Valerij Afanas'ev, grande pianista ma totalmente stravagante. Recentemente ha registrato un disco alquanto sconcertante con musiche di Mozart, in un altro intitolato "Je suis Beethoven" suona la Patetica, il Chiaro di luna e l'Appassionata facendo praticamente tutto il contrario di quello che indica Beethoven, in base appunto al postulato "io sono Beethoven". È una chiara sfida a qualsiasi tipo di regola. "Non sono del tutto pessimista sui giovani", dichiara Ciammarughi, "ma trovo che in alcuni di loro ci sia qualcosa dell'anima russa. A me piace molto Daniil Trifonov, seppur controverso trovo che in lui ci sia quella componente di autenticità dell'anima russa, che poi è difficile definire". Pare che qualcosa alla fine sia scoppiato, si sia destrutturato. Dei lati caratteriali sorprendenti non mancano in uno dei giganti della tastiera, Svjatoslav Richter, con la sua notevole propensione al dandysmo.

 



In lui, anche il fatto di suonare al buio con la partitura davanti, un elemento di esibizionismo lo aveva. D'altro canto la vastità e la meraviglia della sua formazione culturale erano davvero grandi. Colombo cita un episodio, il concerto di Richter tenuto al Vittoriale per Eleonora Duse. Il pianista andò a Roma, all'Istituto Italiano di Cinematografia per farsi dare la sola copia che allora c'era di "Cenere", l'unico film che è rimasto di Febo Mari con la grande attrice, perché suo grande ammiratore. Gavrilov, che lo frequentò e incise con lui anche le Suite di Händel, racconta che lui amava ogni tanto organizzare a Mosca delle grandi feste da ballo in costume. Ci sono a riguardo delle foto che lo ritraggono con bastone e cilindro. In queste occasioni cambiava personalità, i giovani studenti di conservatorio lo guardavano sbalorditi mentre ancheggiava in un modo da fare invidia a Elvis Presley. Con una gran massa di capelli suonò il pianoforte impersonando Franz Liszt nel film "Il compositore Glinka", si dimenava sulla tastiera secondo uno stile molto diverso dagli anni della maturità, gli ultimi concerti lo vedono quasi immobile sulla tastiera. Al contrario di Arturo Benedetti Michelangeli, umoralmente più stabile, Richter aveva dei periodi cupissimi di depressione che potevano durare anche mesi, durante questi stava immobile a letto. Gavrilov diceva che tali periodi gli consentivano di ritrovare le energie. È sorprendente come quest'uomo, che aveva un repertorio sterminato, in realtà avesse anche questi momenti di stasi.

 



Noi lo immaginiamo come una macchina inarrestabile, invece era molto alterno da questo punto di vista. Quando però era nella buona condizione era un qualcosa di mostruoso, la sua velocità di apprendimento del repertorio era impressionante. Tutto questo e altro si ritrova nel libro Soviet Piano, testo interessantissimo che getta nuova luce su un argomento in genere non molto frequentato dai musicologi. Una zona oscura, o semioscura, che l'autore ha voluto rischiarare avvalendosi della sua cristallina qualità di scrittura, direi quasi geometrica nella sua limpidezza. Da attento lettore, credo che il rischio di considerare come prevalentemente polemico questo trattato non sussista: l'accusa cade di fronte alla vastità, all'articolazione e al variegato taglio che Luca Ciammarughi ha voluto dare ai vari capitoli, mescolando mirabilmente le vicende storiche con quelle personali di ogni pianista. Un testo che sembra voler dichiarare guerra alla monotonia, al grigiore che talvolta ricopre il genere saggistico. Emerge un'opera multiforme e per certi versi sfuggente, difficile da catalogare, dove cronaca e passione si avvicinano sino quasi a confondersi in un sol gesto letterario. Durante la composizione dei ritratti individuali forte è la partecipazione umana, tuttavia questa tende ad annullarsi quando si tratta di delineare il percorso storico della Rivoluzione d'ottobre, frangente in cui l'autore assume il tono rigoroso dello storiografo, poco o nulla indulgente a valutazioni personali. Un libro che certamente ci lascia arricchiti. Alla fine dell'evento è la musica che parla: sul Bechstein tre quarti del MaMu i due autorevoli relatori suonano alcuni brani significativi della temperie russa, dimostrando sulla tastiera la stessa finezza, richezza culturale e passione che hanno dimostrato con le parole.


BRANI SUONATI

Sergej Vasil'evič Rachmaninov (1873 - 1943)
Terzo movimento (Adagio) dalla Sinfonia N. 2 in mi minore Op. 27. Trascizione per pianoforte a quattro mani di Wladimir Wilschau.

Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840 - 1893)
Quarto e quinto movimento (Panorama e Valse) dalla Suite del balletto "La belle au bois dormant" Op. 66A. Trascrizione per pianoforte a quattro mani di Sergej Rachmaninov.

Igor' Stravinskij (1882 - 1971)
Piano-Rag-Music

 

 

 

Alfredo Di Pietro

 

luglio 2018


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