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29. března 2024 ..:: Piano City Milano 2017 - Parte Terza ::..   Přihlásit se
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 Piano City Milano 2017 - Parte Terza Minimalizovat

Domenica 21 - ore 14,00 - Triennale Teatro dell'Arte - Viale E. Alemagna, 6

Emanuele Arciuli "Piano Lesson": "Musica americana: minimalismo e oltre"

 



Un tempio di arte e cultura, questa è la Triennale di Milano, nata a Monza nel 1923 con il nome di "Esposizione Internazionale delle Arti Decorative". Nel binomio s'inseriscono anche le relazioni tra industria e società, a formare il complesso quadro dei fermenti esistenti nell'Italia del dopoguerra, rinfrancata dalla prospettiva di un nuovo benessere. Dietro il suo concepimento c'era l'ambizione di farsi crocevia di tutte le forme d'arte ed espressione creativa. Dismessa la sede monzese, dieci anni dopo sorge la Triennale di Milano nel nuovo Palazzo dell'Arte, progettato dall'architetto Giovanni Muzio. Contemporaneamente l'istituzione assume personalità giuridica autonoma. La sua vita inizia sotto i migliori auspici: due guide autorevoli, Gio Ponti e Mario Sironi, ne favoriscono uno sviluppo esponenziale. Il monumentale edificio fu chiamato "Palazzo Bernocchi" in onore della famiglia che l'aveva economicamente sostenuto con una generosa donazione. Molti grandi nomi del '900 ne hanno arricchito la storia, De Chirico, Sironi, Campigli e Carrà crearono delle magnifiche pitture murali. Un fruttuoso rapporto proseguito nei decenni successivi con l'esposizione delle opere di Fontana, Baj, Martini, Pomodoro, de Chirico, Burri e, più recentemente, Merz, Paolini e Pistoletto. Nel dopoguerra la Triennale ha affrontato il problema della ricostruzione realizzando il quartiere sperimentale QT8, negli anni cinquanta ha dato un forte impulso al tema del disegno industriale, da cui il fenomeno del "design italiano", così ammirato nel mondo. Dopo un decennio ha affrontato le problematiche legate allo sviluppo economico e alle sue trasformazioni sociali. Il suo ambito d'interesse è divenuto vasto e ramificato, oggi si estende alla moda, al cinema, alla grafica e alla comunicazione audiovisiva.

 



Il Piano City Milano non è solo musica ma anche parola, l'integrazione tra le due nel format della lezione-concerto non è assolutamente da sottovalutare, ma favorisce una più profonda comprensione di quello che si ascolta. Sono due le "Piano Lesson" cui ho assistito nel grande Teatro della Triennale, nella prima Emanuele Arciuli è stato protagonista dell'evento: "Musica americana: minimalismo e oltre". Ma chi è questo arguto Cicerone? È un pianista che si esibisce regolarmente per istituzioni musicali di grande prestigio e nelle maggiori sale da concerto. Qualche nome dobbiamo darlo per capire a che livelli si muove: Teatro alla Scala, Concertgebouw di Amsterdam, Musikverein di Vienna, Philharmonie di Berlino, Maggio Musicale Fiorentino, Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Biennale di Venezia, Miller Theater di New York... Concertista di vaglia, ha un repertorio che spazia da Bach alla musica di oggi, con speciale riferimento all'americana, di cui è considerato uno degli interpreti più autorevoli. È dedicatario di numerose opere, da lui eseguite in prima assoluta. Dal punto di vista discografico, ha registrato numerosi CD per etichette come Innova Records, Chandos, Bridge, Vai e Stradivarius. Un suo album dedicato a George Crumb, inciso per Bridge e parte del progetto "Round Midnight", ha ricevuto la "nomination" per i Grammy Awards. Attualmente è titolare della cattedra di pianoforte principale al Conservatorio di Bari e dal 1998 è frequentemente professore ospite in numerose università americane.

 



A coronamento di un'attività così intensa e meritoria, nel 2011 gli è stato conferito il Premio Abbiati come miglior solista. Un accompagnatore quindi molto qualificato, che ci guida nell'argomento della musica americana e minimalismo senza però assumere toni paludati o professorali. È al contrario amichevole, colloquiale, il suo è un approccio forse ideale per affrontare in maniera "leggera" una tematica così complessa e ramificata. Cala il pubblico in una narrazione ricca di addentellati culturali, ma anche di gustosi aneddoti, tocca con apparente "nonchalance" delle tesi che a molti potrebbero risultare indigeste. Siede al pianoforte e suona alcune "clip" esemplificative del minimalismo, un genere "ramo" della musica colta, nato negli Stati Uniti durante gli anni sessanta dall'esigenza di rendere più accessibile la musica d'avanguardia dei primi anni sessanta. M'inserisco di straforo con una mia nota personale: considero molto più "fruibile" il minimalismo che la musica sperimentale, per me quasi impossibile da ascoltare. Spuntano fuori i nomi di Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass. Emanuele Arciuli ci spiega come spesso il minimalista sia erroneamente considerato un genere estremamente ripetitivo, al limite della noia, in realtà si basa sulla scarnificazione del materiale musicale tradizionale. Nel suo procedere si verifica una variazione continua, incessante, quasi impercettibile ma costante di temi che solo apparentemente appaiono statici. Le ipnotiche ripetizioni fungono così da cellule melodiche che, attraverso iterazioni e sovrapposizioni ritmiche, sono in grado di generare intrecci sonori anche particolarmente complessi.

 



Come in un grande crogiuolo, nel minimalismo s'individua una componente che richiama anche le arti visive d'avanguardia come la danza, la pittura e il teatro. La Pop Art e anche suggestioni della musica etnica poliritmica. Il maestro Arciuli chiarisce il concetto di musica "americana", si avvicina alla personalità di John Cage e da questa prende lo spunto per parlare delle prassi aleatorie nella composizione musicale, tecniche che hanno letteralmente stravolto il modo di ascoltare una composizione musicale. Ecco l'importanza del minimalismo, forse argomento principe di questa stimolante "Piano Lesson"; con questo, al riparo da astrusi eccessi di sperimentalismo, si assiste a un'opera di riumanizzazione della musica, nella completa riabilitazione di elementi tradizionali come melodia, ritmo, contrappunto e armonia che riconciliano con un ascolto più a misura d'uomo. Emanuele Arciuli è stato l'abile nocchiero che ci ha consentito di ripercorrere queste avventurose rotte, in cui è possibile riconoscere le molteplici influenze che animano la musica odierna.


INTERVISTA AL MAESTRO EMANUELE ARCIULI

 



Alfredo Di Pietro: Maestro, da cosa nasce questo suo grande amore per l'insegnamento e la divulgazione?

Emanuele Arciuli: Mah, non so se ho un grande amore verso di loro, diciamo che mi diverto a parlare di cose che mi piacciono. Sono elementi con i quali ho un rapporto di grande intensità e, di conseguenza, provo soddisfazione nel poterli comunicare agli altri.

ADP: Cosa pensa di una manifestazione così grande come il Piano City Milano, questo "tsunami" di musica pianistica che invade la città?

EA: Naturalmente, se ne pensassi male non lo direi mai (sorride), ma davvero ne penso tutto il bene possibile. È una manifestazione molto importante, vitale direi. L'unica cosa che mi auguro e che produca degli effetti di più vasta portata. Se la musica è così rilevante, forse è il caso che lo sia anche per la politica che deve finanziare la cultura. Le istituzioni devono finalmente capire quanto è preziosa e, quindi, anche quanto merita di essere supportata.

ADP: Cosa consiglierebbe a chi desidera comprendere la musica atonale e non ci riesce? Qual è, se c'è, la chiave giusta per entrare in questo mondo?

EA: Io sono contrario alle forzature, penso che le cose avvengano se devono avvenire, nei tempi in cui decidono di farlo. Non è quindi obbligatorio, ma credo si debbano seguire liberamente le proprie pulsioni.





Domenica 21 - ore 16,00 - Triennale Teatro dell'Arte - Viale E. Alemagna, 6

Michele Campanella "Piano Lesson": "Quadri da un'esposizione"

Modest Petrovič Musorgskij
Quadri di un'esposizione

  - Promenade
I. Lo gnomo
  - Promenade
II. Il vecchio castello
  - Promenade
III. Tuileries (Litigio di fanciulli dopo il gioco)
IV. Bydło
  - Promenade
V. Balletto dei pulcini nei loro gusci
VI. Samuel Goldenberg e Schmuÿle
  - Promenade
VII. Limoges, il mercato (La grande notizia)
VIII. Catacombe (Sepolcro romano) - Con i morti in una lingua morta
IX. La capanna sulle zampe di gallina (Baba Jaga)
X. La grande porta (Nella capitale Kiev)

 



"Quadri da un'esposizione", composizione entrata a pieno titolo tra i monumenti della letteratura pianistica che Michele Campanella con tanta passione ci consegna, è una di quelle dedicate ad artisti "coraggiosi", i quali non si lasciano spaventare dalle sue notevoli difficoltà tecniche e interpretative. Probabilmente è fuori luogo recensire (nel senso di giudicare) un evento che unisce musica e parola, più corretto è quindi impegnarsi a stilare un accurato reportage, come un buon amanuense dei tempi moderni munito di PC Notebook. Non posso però esimermi dall'esprimere sinteticamente l'impressione che ho ricevuto dall'interpretazione del maestro Campanella, che mi è parsa potente, intensa, ma allo stesso tempo ricca di sottili nuance. Profonda e meditativa nelle parti più tenebrose, come in "Catacombe (Sepolcro romano)" e "Il vecchio castello", brillante e spigliata nelle più frizzanti "Balletto dei pulcini nei loro gusci" e "Limoges, il mercato", sino alla grandiosa esplosione de "La grande porta (Nella capitale Kiev)". Michele Campanella, straordinario virtuoso del pianoforte, si addentra nei meandri di questo capolavoro "anomalo", più conosciuto dal grande pubblico nella versione orchestrale di Ravel. I quadri da un'esposizione furono scritti nel 1874 da un compositore che era nato nel 1839 e morirà nel 1881, quindi a quarantadue anni. L'idea nacque in occasione di una mostra dedicata al suo amico architetto Viktor Hartmann. Musorgskij aveva addirittura assistito all'infarto che lo condusse alla morte, era lì presente rimanendo profondamente sconvolto. La mostra fu l'occasione per far diventare il suo dolore un'opera d'arte, ma questo comunque non passava, non era per lui possibile superare la sofferenza per l'assenza dell'amico.

 



L'esposizione era un'ampia antologia di quadri, bozzetti, acquerelli di Hartmann, parte dei quali erano di proprietà di Musorgskij. Alcuni di questi, che ascolteremo "trasposti" in musica, sono andati perduti, perciò non abbiamo un'idea completa da dove nascesse la musica. Una certa parte però è rimasta e "devo confessarvi che queste opere non sono un granché, davanti alla musica fanno una magra figura" afferma il pianista. Ci sono casi in cui il commento sonoro alle opere d'arte è più bello di queste, come avviene nei "Quadri". Nel nostro caso le immagini sono innocue, non travolgenti né emozionanti. Questa composizione vanta però una straordinaria caratteristica, è amatissima, molto conosciuta, ha avuto qualcosa come quindici trascrizioni per orchestra e una cinquantina di adattamenti. È stata fonte di grande ispirazione per molti musicisti e non solo russi. Modest Musorgskij era un personaggio assolutamente fuori da ogni contesto, è vero che faceva parte del gruppo dei cinque, ma è anche vero che al suo interno era del tutto diverso dagli altri. Aveva delle notevoli differenze di atteggiamento rispetto, per esempio, a Rimskij-Korsakov, non di qualità musicale, ma di posizione e d'idee. Il gruppo dei cinque voleva andare nella direzione della musica popolare. In Russia c'erano grandi tradizioni musicali e il popolo doveva esprimersi, secondo loro, attraverso un linguaggio adeguato al carattere e alla tradizione. Era polemicamente esclusa la musica occidentale, in particolare quella tedesca. Una frase di Musorgskij ha lasciato molto perplesso Michele Campanella, lui detestava Schumann perché era la matematica della musica, scriveva in modo molto regolare, simmetrico, ma quello che c'è dentro la sua musica tutto è tranne che matematica.

 



Era amore, assolutamente al di fuori di tutto quello che l'autore russo ascoltava e pensava che fosse. Musorgskij fa un discorso contro la musica pura, che riteneva morta, quella cioè senza contenuti, senza storie, senza immagini, senza ispirazioni provenienti dall'esterno. Per lui questa musica non esisteva, non gl'interessava, gli dava fastidio. Siamo quindi di fronte a un autore davvero atipico, non tanto però nel quadro di quel momento storico, perché in quegli anni nascono i movimenti della musica nazionale, le scuole come la norvegese di Grieg, l'ungherese di Liszt, tutte indirizzate ad accogliere il patrimonio popolare. Ma il punto era anche capire come andare verso le tradizioni e il popolo. Musorgskij si oppone al modo di fare comune, quello adottato da tutti gli altri e che consiste nel tradurre la musica popolare in termini letterari, nella direzione quindi della tradizione classica accademica. Lui si dichiara apertamente contro l'accademismo, contro la musica tradizionale, cerca di raccogliere le istanze della musica popolare conservandone totalmente l'aspetto più genuino, anche a costo del disordine. Un elemento caratteristico delle sue composizioni è proprio la sfrenatezza, cosa piuttosto paradossale poiché la musica dovrebbe essere innanzitutto ordine, secondo la concezione occidentale. In questo senso lui è un irregolare. C'è una serie infinita di osservazioni che si possono fare su questo punto. All'inizio della composizione la prima battuta è in 5/4 e la seconda in 6/4, con queste due misure asimmetriche si crea un ritmo traballante, ma non c'è un motivo davvero cogente per adottare quest'andamento.

 



È un atteggiamento polemico? Forse un modo di presentarsi? Questo brano è la "Promenade", il ritratto" di Musorgskij mentre cammina nella mostra passando da un quadro all'altro, la melodia personalizza in maniera estrema la sua presenza. La musica sino a Schubert è stata senza contenuti extramusicali, non sottostava a un racconto ma era più che sufficiente a se stessa, viveva di se. Da Schumann in poi invece si è voluto raccontare i fatti della gente attraverso di essa. Chopin, tra i tre grandi romantici (lui, Schumann e Liszt) è il più classico, il più misterioso; insieme a Schumann è un grande innovatore ma non fa teoria sulle proprie novità, a differenza di quest'ultimo. Sviluppa tutta la prima parte del suo percorso artistico scrivendo musica che narra, racconta. Le storie dentro i brani erano rappresentate dai titoli, questo accade nelle "Novelletten" per esempio; sussisteva un programma interno, magari non dichiarato, che rimandava ad avvenimenti della sua vita. La musica così si riempie di questi racconti seguendo una logica che non è più quella della forma sonata. Liszt è l'autore dell'immagine, ha composto musica che rappresenta molto spesso delle visioni e le emozioni a queste collegate. I Quadri da un'esposizione hanno tuttavia un precedente, Liszt ha scritto un brano che si chiama "Sposalizio", ispirato al famoso quadro di Raffaello. L'idea che la musica potesse interpretare attraverso le note un fatto visivo non era quindi una novità di Musorgskij, era già successo con Liszt e Wagner. L'inizio de "L'oro del Reno" è affidato a un movimento che descrive le onde di questo fiume e più descrittivo di così non potrebbe essere.

 



Campanella si domanda: con l'intento descrittivo si riduce la qualità della musica? Assolutamente no si risponde, perché questa è sempre collegata a un'emozione, non di mera cartolina si tratta ma di una grande musica che si riempie di significati. Tranne la Sonata, tutte le opere di Liszt hanno un titolo collegato al senso della musica. Arriva Mussorgskij, il quale avrebbe dovuto incontrare Liszt, ma era talmente malconcio per l'eccesso di alcool (in esso naufragava cercando di consolare i suoi dolori profondi), che non si presentò. Liszt era una specie di "Deus" che valutava, aiutava, considerava, suggeriva e promuoveva la musica dei giovani compositori. La novità travolgente della musica di Musorgskij sta proprio nel suo contenuto, non nel fatto che con questa si possa descrivere un dipinto, magari in un modo più bello e tale da migliorarlo. L'autore russo compone una musica assolutamente nuova, rivoluzionaria, ed è raro trovare nella storia di quest'arte dei veri rivoluzionari. Chopin è uno di quegli autori, pochissimi, di cui non si comprende l'origine musicale, lui ignorava Beethoven, mentre tutti gli altri avevano alle spalle la sua ombra. Bach è il collettore del barocco, Mozart ha preso da tutti, soprattutto dall'Italia. Questo non implica una "diminutio" della sua originalità ma va considerato come un fatto normale, come Beethoven aveva preso da Haydn, da Clementi, da Mozart, ognuno attingeva dai compositori dei tempi in cui viveva. Musorgskij ha partecipato al movimento artistico dei cinque ma la sua musica è assolutamente diversa da ogni altra, è questa la sua eccezionalità, che ancora oggi c'impressiona. Sino a quel momento, tranne qualche tentativo di Liszt, nessuno aveva scritto della musica (a parte le opere ovviamente) che descrivesse la paura, l'angoscia e la crudeltà come aveva fatto lui.

 



Si tratta di un espressionismo che tocca delle modalità allora assolutamente sconosciute. In Baba Yaga, la famosa strega russa, c'è un susseguirsi d'immagini vivide, violente, passionali, più che a una forma musicale queste rispondevano al forte istinto dell'autore e alla sua estrema sensibilità. Modest Musorgskij non era uno che si dedicava alla forma. La "Promenade" è una specie d'intermezzo tra un pezzo e l'altro, il tema è sempre lo stesso ma il suo carattere si trasforma in previsione del quadro che sta per arrivare. In "Gnomus", lo gnomo, la descrizione insiste sulla deformità di questo essere e anche sulla sua crudeltà, segue "Il vecchio castello", il quale fa riferimento a un bozzetto che Hartmann aveva disegnato durante un viaggio in Italia, purtroppo andato perduto. Descrive la scena di un menestrello che canta una nenia insistente, ripetuta, trasformata nel carattere russo; un pezzo straordinario, dolente nel suo mesto incedere. In "Tuileries" ci sono dei bambini che giocano e bisticciano tra loro, un quadretto ispirato a un disegno di Hartmann che contiene la psicologia infantile. Bydlo è il pesante carro dei contadini polacchi, dotato di enormi ruote che avanza faticosamente, la musica è descrittiva, certamente, ma non si limita a una mera onomatopea, coglie il significato profondo della fatica. Senza un libretto è difficile in musica realizzare un'idea di questo genere. Il "Balletto dei pulcini nei loro gusci" era un vero balletto che veniva programmato in quell'epoca, protagonisti dei pulcini che zampettano e pigolano. Le armonie sono sempre e comunque strepitose, inaudite, di una modernità sconvolgente.

 



Senza interruzione arriva "Samuel Goldenberg und Schmuyle", due ebrei: uno ricco e l'altro povero, qui si racconta il disprezzo del primo verso il secondo, due condizioni umane incarnate in due ritratti: il primo aggressivo, prepotente, querimonioso il secondo, lagnoso, nell'intento di chiedere l'elemosina. Segue l'ultima Promenade, quasi uguale alla prima. È questo "quasi" che disturberebbe un accademico, perché allora non farla uguale? Non è tanto diversa da far notare una netta discrepanza, ma le piccole correzioni interne di cui difficilmente ci si accorge però ci sono. Arriva "Limoges", un pezzo frenetico dove veramente c'è l'idea del disordine, un mercato vecchia maniera fatto di un'umanità brulicante. Dietro questo brano c'è una storia che poi Musorgskij ha cancellato, parlava di una mucca perduta e poi ritrovata. Improvvisamente la musica si ferma, con violenza, per lasciare spazio alle "Catacombae", brano di una musicalità intensissima, immobile, ispirato da un acquerello in cui lo stesso Hartmann si ritraeva a lume di fiaccola, nelle catacombe di Parigi. Nella seconda parte l'autore appose un sottotitolo in latino: "Cum mortuis in lingua mortua", in realtà emerge una tetra Promenade che riecheggia il tema in un'atmosfera tuttavia del tutto diversa. Michele Campanella la definisce "nebbiosa", come vedere male le cose nell'oscurità. Senza interruzione entra prepotente "La capanna su zampe di gallina (Baba-Jaga)", nell'indicazione c'è un "feroce" che non lascia spazio a dubbi sul carattere del pezzo. Baba-Jaga è la più celebre strega russa che vive in una casupola poggiata su zampe di gallina.

 



Si tratta di un personaggio cattivo che qui lo diventa ancora più. Il quadro è configurato A-B-A, con due parti estreme uguali (ma non completamente) e una centrale più lenta che descrive la sensazione di paura, di panico dell'uomo davanti all'ignoto. La conclusione di questa straordinaria opera è "La grande porta di Kiev", ispirata a un disegno di Hartmann che ritrae una porta maestosa, che non fu mai costruita. Musorgskij la eleva al livello del suo "Boris Godunov", emblema della grandezza dell'anima russa. Appare per due volte un inno battesimale ortodosso. I "Quadri" finiscono in gloria ma Michele Campanella si domanda se questo sia un trionfo positivo dopo tanta sofferenza, oppure la descrizione di un potere cui lui si sente estraneo? Questa grandiosità fa parte della scenografia del potere russo, in fondo.





Domenica 21 - ore 19,00 - Piazza Hotel Four Points Sheraton - Via G. Cardano, 1

Luca Ciammarughi e Stefano Ligoratti in concerto.

FRANZ SCHUBERT (1797-1828)

Allegro in la minore "Lebensstürme" per pianoforte a quattro mani D. 947 Op. Postuma 144
 
Sonata in si bemolle maggiore per pianoforte a quattro mani "La Grande" Op. 30 D. 617
1) Allegro moderato
2) Andante con moto
3) Allegretto

Fantasia in fa minore per pianoforte a quattro mani Op. 103 D. 940

1) Allegro molto moderato
2) Largo
3) Allegro vivace
4) Con delicatezza

 




Difficile tratteggiare esaurientemente la personalità di due artisti come Luca Ciammarughi e Stefano Ligoratti nel contesto di un "veloce" reportage, ma m'impongo di provarci. Figura complessa nel panorama italiano, pianista, musicologo, critico musicale dagli ampi orizzonti e conduttore radiofonico su Radio Classica, Luca Ciammarughi si distingue come uno dei più sensibili e personali interpreti di Franz Schubert del panorama concertistico odierno. Pareri molto lusinghieri sono stati espressi nei suoi riguardi da Dino Villatico che, riguardo alla sua interpretazione dell'ultima sonata per pianoforte di Schubert (D 960), ha scritto: "...ha insistito sull’ambiguità del mondo musicale schubertiano, non nel senso che sia un mondo sfuggente, ma in quello, più profondo, che non sono definiti i confini del dolore e della gioia, dell’alto e del basso, del sublime e del volgare...". Paolo Isotta, nel libro "Altri canti di Marte", ha affermato: "le interpretazioni di Ciammarughi sono di altissimo livello e mettono capo a una ricerca timbrica quale può essere concepita solo da un artista nato nel Novecento". Ricordiamo la sua attività di critico musicale per l'importante rivista “Musica”, le sue pubblicazioni discografiche dell'amato Schubert, i saggi su Schumann, Debussy, Poulenc, i numerosi articoli, interviste, voci enciclopediche, i programmi di sala stilati per alcune delle principali istituzioni italiane. Per tre anni è stato presentatore e autore di testi per il canale televisivo Classica di Sky, dal 2014 è conduttore della trasmissione “Dischi volanti” su ClassicaViva web radio.

 

Luca Ciammarughi



Figura parimenti eclettica quella di Stefano Ligoratti. Si diploma appena ventenne al Conservatorio "G. Verdi" di Milano in pianoforte, organo e composizione organistica, con il massimo dei voti, lode e menzione d’onore. Prosegue gli studi e, in un periodo compreso tra il 2007 e il 2010, consegue i diplomi di clavicembalo, direzione d’orchestra, composizione tradizionale e quello del Biennio di specializzazione in pianoforte. Subito dopo i diplomi, risulta vincitore in diversi concorsi nazionali e internazionali, tra cui il "Castrocaro" e il prestigioso "Mario Fiorentini", dove vince il primo premio assoluto, il premio del pubblico e quello come pianista più giovane. All'attività di strumentista e direttore d'orchestra affianca un fervido impegno divulgativo e culturale, in qualità di Direttore Artistico dell'Associazione musicale "ClassicaViva". Ha fondato e dirige l'Orchestra "ClassicaViva" in cui ricopre anche il ruolo di pianista solista. Citiamo infine il suo contributo, crescente, nel campo cameristico con la Società Umanitaria di Milano. Ristoratrici mi raggiungono, al termine della seconda intensa giornata trascorsa al Piano City Milano, le note dell'"Allegro in la minore "Lebensstürme" D. 947. L'attacco è perentorio, deciso ma non greve, il duo Ciammarughi-Ligoratti esibisce immediatamente al pubblico il suo biglietto da visita, il suo è un pianismo mobilissimo e nobile. Discorsivo, non indugia mai nella sottolineatura della singola frase, ma mostra una speciale attitudine alla narrazione episodica. L'atmosfera trascolora nel lirico episodio centrale, senza clamori ma quasi in punta di piedi si apre una porta sull'universo delicatissimo e sognante di Schubert.

 



Il discorso musicale si fa progressivamente più mosso sino a ritornare all'incisivo enunciato iniziale, ora caricato di una drammaticità ancora più inquieta. Tutta la sublime levità della musica Schubert si manifesta nel secondo brano a programma, la Sonata in si bemolle maggiore "La Grande" Op. 30 D. 617, immersa però in un clima più sereno. Composta a ventuno anni, strizza l'occhio a uno stile brillante, teatrale e fondamentalmente spensierato, molto distante da quello delle ultime composizioni. All'"Allegro moderato" segue un "Andante con moto" dalla distesa cantabilità, configurato in forma di "lied" (A-B-A), mentre il movimento finale è un disinvolto "Allegretto" che ripristina la vivace atmosfera iniziale, tutta molto weberiana. Il duo Ciammarughi-Ligoratti ammanta questa sonata di un'aristocratica eleganza, di una disinvolta e felice scorrevolezza, rendendolo estremamente godibile. Di tutt'altra temperie è il brano conclusivo, la Fantasia in fa minore Op. 103 D. 940, emblema di una forma molto cara e che Schubert frequentò dagli esordi sino alla maturità. In questa il grande compositore trovava quella libertà di procedere a lui congeniale, il mezzo di più immediata esternazione della sua freschissima poetica, poco disposta a lasciarsi ingabbiare in forme rigidamente precostituite. C'è tutto un sognante mondo di sentimenti che le note dischiudono, lo screziato universo poetico di Franz Schubert qui trova piena espressione.

 



Piuttosto articolata nella concezione, questa fantasia è divisa in quattro movimenti, il primo e l'ultimo in fa minore, e due movimenti centrali (Largo e Allegro vivace), legati da una notevole omogeneità compositiva, dove possiamo riconoscere quel fertile "humus" si episodico ma costantemente sotteso da una ferrea coerenza interiore. Questo è il "miracolo" Schubert, che il nostro duo dimostra di aver perfettamente individuato nelle sua più intima genesi: un procedere che appare frammentato, parcellare, dai frequenti soprassalti emotivi che però alla fine si ricompongono in una visione totalizzante che più congruente di così non potrebbe essere.

 



Giù il cappello per questo formidabile duo pianistico!

 




INTERVISTA A LUCA CIAMMARUGHI

 



Alfredo Di Pietro: Maestro, in lei riconosciamo le figure del pianista, conduttore radiofonico, critico musicale e divulgatore. Senza che questa voglia apparire come una facile schematizzazione, da cosa deriva questa sua grande ecletticità?

Luca Ciammarughi: Ho sempre concepito la musica come un tutt'uno, una dimensione totalizzante che mi ha portato a vivere il fatto musicale in tanti modi diversi. Inizialmente era anche un fare di necessità virtù perché vivere di soli concerti non è attualmente facile, soprattutto per un giovane pianista. Quando ho finito il conservatorio ho iniziato a fare i primi concerti, ma mi sono anche trovato nella condizione di trovarmi un impiego, come si suol dire, venendo anche da una famiglia di condizioni umili dal punto di vista economico. Nel 2006 ho visto un bando di ricerca di DJ classici a Radio Classica, cercavano dei giovani che presentassero la musica in maniera non paludata. Quindi mi sono impegnato in questa prova, anche se in realtà non amavo molto parlare, non mi è mai piaciuto particolarmente farlo, ma ho sempre preferito scrivere o esprimermi al pianoforte. È stato per me una sorta di training, dovendo andare in onda tutti i giorni sono stato obbligato a esprimermi verbalmente. Dalla radio poi sono nate una serie di opportunità, dei contatti che mi hanno portato a scrivere su riviste, a fare lezioni concerto e quindi la mia attività di divulgatore si è ampliata più di quanto inizialmente potessi immaginare. All'inizio pensavo che la radio togliesse spazio alla mia attività di pianista, poi invece mi sono accorto che era il contrario, perché ho imparato a gestire forse meglio il tempo e quelle tre, quattro ore che potevo avere al giorno per studiare, ho sempre cercato di sfruttarle al massimo.

ADP: Qual è la sua opinione sul format della "lezione-concerto"? Quanto conta la parola prima della musica?

LC: Mi accorgo che il pubblico è sempre più avido di ascoltare qualcosa intorno alla musica. Ha voglia che venga spiegata al fine proprio di entrare nel suo contesto, d'immergersi nell'epoca in cui è stata scritta un'opera. Naturalmente molte cose noi le diamo per scontate, a volte io preferirei anche suonare senza parlare, dal punto di vista egoistico. Però mi rendo conto che le persone amano molto essere in qualche modo introdotte, educate alla musica e questa è una cosa sicuramente importante. È fondamentale venire incontro alle esigenze di chi ascolta più che ragionare egoisticamente. E poi, in fondo, per chi suona è un modo per rompere il ghiaccio, sicuramente s'instaura un rapporto meno ingessato rispetto a quello sacerdotale che c'era un tempo.

ADP: Ammiro molto le sue interpretazioni di Franz Schubert, autore che lei consegna all'ascoltatore con grandi qualità. La finezza del fraseggio, la cura timbrica del suono, l'equilibrio e l'introspezione poetica nonché la nobiltà espressiva rendono il suo Schubert davvero speciale. Com'è nato l'amore per questo grande autore?

LC: È nato nell'adolescenza, non dalla musica per pianoforte ma da un ciclo di lieder, Winterreise. Sempre per tornare a questa e alle sue ramificazioni, la passione è scaturita prima da un libro che ho letto di Carlo Lo Presti, "Il viandante e gli inferi", lo avevo comprato casualmente nella libreria "Libraccio". Mi ha fatto venire poi la curiosità di ascoltare le musiche di questo ciclo liederistico, anche inquietante se vogliamo, ma si sa che gli adolescenti a volte sono un po' attratti dalle tematiche quasi macabre. L'ascolto fu folgorante, ricordo un'incisione molto bella di Winterreise con Christoph Prégardien e Andreas Staier. Dai lieder sono giunto poi alla musica per pianoforte, da camera, anche se in realtà da piccolo in passato c'era stata un'esperienza schubertiana insieme a mio fratello, che è violinista. Il primo brano che abbiamo eseguito insieme a undici anni è stato proprio la Sonata o Sonatina in re maggiore. Un primo approccio, ma l'amore è sbocciato con Winterreise e poi attraverso il mio maestro Paolo Bordoni, che è un grande schubertiano, con la conoscenza delle opere pianistiche. Mi ricordo la prima composizione che ho studiato con lui, l'Improvviso Op. 142 N. 1, in seguito è venuta l'ultima sonata e poi tante altre.

ADP: Come concertista, vedo in lei una sorta di "antivirtuoso" per eccellenza, non certo per le sue capacità tecniche, che sono preclare, ma quanto per il suo allontanarsi da un'esteriore brillantezza fine a se stessa, per riconquistare una profonda dimensione interiore. Può confermare o smentire questa mia impressione?

LC: Direi che la confermo. La ringrazio per queste parole. Naturalmente io non voglio dire che questa mia scelta sia in qualche modo elitaria, ma è legata anche alle mie caratteristiche. Sono convinto che un pianista debba essere assolutamente cosciente dei propri limiti per trovare quello che veramente fa per lui. Non sono uno di quelli che si nascondono dietro un dito, non sono sicuramente un virtuoso di stampo lisztiano come tipo d'impostazione né ho la struttura fisica per affrontare, ad esempio, il secondo concerto di Brahms o il terzo di Rachmaninov, anche se sono partiture che studio e a volte suono per me a casa. Sono però cosciente che c'è chi le può sicuramente suonare meglio. Dall'altro lato sono anche contento, in fondo, di questa mia dimensione poiché oggi sempre di più c'è il rischio di pianisti che siano un po' delle macchine da guerra, magari con una eguaglianza assolutamente tecnologica nel suonare, che però porta a volte a un virtuosismo abbastanza impersonale. Non voglio dire algido in quanto ognuno ha la sua dimensione, la sua sensibilità, però il rischio è proprio di perdere il gusto di quell'inuguaglianza che avevano anche grandi virtuosi come Horowitz o Samson François, pianisti che non erano magari sempre perfetti, anzi a volte non volevano essere alla ricerca dell'uguaglianza. Questo sicuramente dà più umanità al discorso musicale. Purtroppo nei conservatori, nei concorsi non sempre si tiene conto di questi aspetti.

ADP: Lei ha un'intensa attività come critico e divulgatore musicale. Sulla base della sua grande esperienza, cosa ritiene si possa fare di più e di meglio per avvicinare le nuove generazioni alla grande musica?

LC: Questa è una domanda da un milione di dollari (sorride). Credo che non bisogna cercare di banalizzare la musica o di renderla per forza qualcosa di populistico attraverso operazioni di facile marketing. Le persone non sono assolutamente stupide, i giovani hanno una mente molto duttile, molto aperta ma si accorgono quando gli si sta ingannando attraverso operazioni di superficie. Tra l'altro la musica classica a volte vuole fare quella che insegue il Pop arrivando però in ritardo di qualche anno e quindi proponendo schemi che in realtà per il Pop sono già invecchiati, per quanto riguarda la pubblicità e il marketing. Sono persuaso che non bisogna assolutamente cercare di essere ciò che non si è, ma essere sinceri, onesti e cercare di portare le persone dal basso verso l'alto, nel senso della qualità musicale. Anche io ascolto molte altre musiche, dal Pop al Jazz, mi diverto, magari vado anche in discoteca però è vero che esiste una tradizione alta che non può essere negata, la quale ci porta verso vette spirituali di cui nessun uomo dovrebbe fare a meno. E questo le persone, se sono accompagnate in un percorso, possono capirlo e apprezzarlo molto.


Alfredo Di Pietro

Giugno 2017


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