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 Non capisco! Son profano! - La forma sonata tra '700 e '800 - Pianoforte solo Minimalizovat


 

 

MARTEDÍ 29 GENNAIO 2019 - PALAZZINA LIBERTY MILANO

La forma sonata tra '700 e '800 - Pianoforte solo

Ludwig Van Beethoven (1770 - 1827)
Sonata N. 23 Op. 57 in fa minore "Appassionata"
- Allegro assai
- Andante con moto
- Allegro ma non troppo - Presto
Pianoforte: Stefano Ligoratti

Franz Schubert (1797 – 1828)
Sonata in si bemolle maggiore D. 960
- Molto moderato
- Andante sostenuto
- Scherzo. Allegro vivace
- Allegro ma non troppo
Pianoforte: Luca Ciammarughi




Come una macchina ben rodata ha inizio questo secondo evento della rassegna "Non capisco! Son profano!", nei fatti una lezione-concerto densa di significati perché incentrata su uno snodo storico veramente importante, protagonisti Beethoven e Schubert. L'odierno appuntamento è motivo di riflessione sulle relazioni individuabili tra due diverse opere e su ciò che la musica rappresenta in se come forma. Si entra nel vivo prendendo in esame come queste due rappresentazioni della forma-sonata siano costruite, il loro significato esteso anche al piano esistenziale e storico. Ci addentreremo sì nell'analisi dell'Appassionata e della D. 960, in una maniera il più possibile chiara, ma anche nel rapporto che queste hanno avuto con la vita dei compositori, nel contesto storico in cui essi vissero. Va da sé che con Beethoven e Schubert ci troviamo di fronte a due figure capitali della musica. Il primo, in tutto l'ottocento e novecento è stato una presenza monumentale, a volte vista in modo eccessivo come pilastro della classicità, quella con la "C" maiuscola, quando sappiamo benissimo che, invece, ai tempi Beethoven era considerato un personaggio controverso. La sua musica veniva descritta sovente come demoniaca, corruttrice della bellezza classica, quella che poeti, filosofi o anche letterati come Goethe vedevano piuttosto nella musica di Mozart, di Mendelssohn oppure nell'arte pittorica di Raffaello. Ludwig van Beethoven con la sua rivoluzione era considerato un vero e proprio contaminatore di questa bellezza. Franz Schubert è stato invece riscoperto in pieno '900, soprattutto intorno agli anni '50, '60 e '70, in particolare per quanto riguarda le sonate, grazie a grandi pianisti come Svjatoslav Richter, Alfred Brendel e, ancor prima, Artur Schnabel.

 



Questi due giganti della musica furono però anche degli uomini, quindi è opportuno tornare, immergendoci nella loro epoca, a vederli come persone e non come icone della classicità. Le loro opere possono essere considerate dei classici, secondo la definizione di Italo Calvino (che era riferita alla letteratura): "Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire." Ciò significa che ancora oggi il loro lascito costituisce un messaggio di bruciante attualità, nel modo in cui hanno riflettuto sulla vita, la morte, sul rapporto dell'uomo con la spiritualità ma anche in un certo senso con la carne. Il confronto tra loro è molto importante, anche dal punto di vista temporale, in quanto ci mostra due artisti che vissero quasi nella stessa epoca: Beethoven nacque nel 1770, ventisette anni dopo Schubert, ma i due morirono a breve distanza, rispettivamente nel 1827 e 1828; entrambi vissero a Vienna per un certo periodo. Tra l'altro Schubert fu uno di coloro che portarono il feretro di Beethoven e una delle prime persone che lui volle vedere quando era sul letto di morte. Tuttavia, non si erano mai incontrati prima. Ciò è abbastanza singolare perché vivevano nella stessa città e passeggiando avrebbero potuto facilmente incrociarsi. Avevano pure uno stile di vita simile, componevano soprattutto di mattina, camminavano nel pomeriggio nei dintorni di Vienna, al Prater, mentre la sera si davano un po' alla bisboccia. Erano entrambi grandi bevitori, soprattutto Beethoven che a causa dell'alcool ci rimise la salute, morendo a cinquattasette anni per cirrosi epatica.

 



Non s'incontrarono, o non vollero, forse perché Schubert era piuttosto intimidito da quel titano che era Beethoven. Ebbero lo stesso maestro, Antonio Salieri, in seguito però presero le distanze da lui in quanto tenace rappresentante della classicità di Gluck, di cui era stato allievo. Salieri fu musicista d'indubbia classe, tuttavia fedele a un tipo di bellezza proporzionata, estremamente equilibrata, nell'aderenza alla quale non bisognava evadere da certi canoni stabiliti. Beethoven non aveva alcuna intenzione di rispettarli, lo sentiamo dalla sua musica rivoluzionaria, al contrario di Schubert, che rimase a essi più conforme almeno fino al 1824, quando si affrancò da alcuni elementi dell'insegnamento più accademico per seguire una strada molto vicina a quella di Beethoven, ma sempre comunque molto personale. Furono simili e insieme diversi, vissuti all'interno di un periodo storico molto problematico. Beethoven, all'epoca diciannovenne, fece ancora in tempo a entusiasmarsi per la rivoluzione francese, specialmente per Napoleone Bonaparte, al quale aveva in un primo momento dedicato la sinfonia "Eroica". In seguito però tale dedica fu bruscamente cancellata, a causa della forte disillusione per la sua incoronazione a imperatore. Ad ogni modo, da giovane s'infiammò per gli ideali libertari, divenendo un uomo militante oltre che compositore. Cosa che non avvenne per Schubert, nato quando tutto era finito. Dopo la rivoluzione francese si era instaurato il Terrore, lui visse tutta l'adolescenza nel pieno del regime di Metternich, in un periodo perciò di censura, delazione, spie. Allora a Vienna si respirava un'atmosfera soffocante e spesso gli artisti preferivano rifugiarsi in un mondo parallelo, invece di entrare in maniera attiva nella realtà.

 



Cercò quindi protezione in un universo privato, le famose Schubertiadi, cioè quegli incontri organizzati nelle case degli amici dove si godeva del piacere di suonare e ascoltare musica tutti insieme. Era un cosmo fatto di affetti, di calore domestico ma anche di fuga dalla realtà. Queste due diverse predisposizioni le ritroviamo anche nella loro musica, nelle due sonate dell'impaginato di sala: l'Appassionata e la D. 960, spiegate e interpretate da Stefano Ligoratti e Luca Ciammarughi. Nella prima è decisamente presente l'elemento rivoluzionario, è musica di tale vigore ed energia da rasentare in certi momenti la violenza, mentre nella seconda c'è un mondo completamente differente, dove emerge il concetto della "divina lunghezza", quella che Robert Schumann definì "Himmlische Länge" riferendosi alla Sinfonia N. 9 "La grande". In questa assistiamo a un notevole dilatarsi della forma, indirizzata verso quello che Alfred Brendel chiamò il percorso di un sonnambulo, mentre Beethoven costruisce la forma come un architetto, in maniera logica, con una direzione e un obiettivo ben precisi, anche quando la destinazione, come nell'Appassionata, è tragica. Con Schubert si ha la sensazione di girare in tondo, senza avere una meta, come un rabdomante in cerca di qualcosa che non conosce ancora. Il valore della D. 960 non sta tanto nella destinazione quanto nel viaggio. Cionondimeno, ci sono alcune questioni personali che mettono in contatto i due compositori, intesi anche come uomini poiché le vicende artistiche possono essere lette anche attraverso dei dettagli biografici.

 



In Beethoven la grande crisi testimoniata dal Testamento di Heiligenstadt, una lettera manoscritta indirizzata ai fratelli Kaspar Karl e Nikolaus Johann nel 1802, avvenne in un momento delicatissimo della sua vita, quando fu addirittura sul punto di suicidarsi. In realtà, allora aveva già superato la fase peggiore del suo periodo di depressione, un crollo psicologico determinato dalla sordità. Il compositore di Bonn ebbe problemi di udito sin dall'età di ventisei anni e da subito sentì l'esigenza di nascondersi, non tanto per la vergogna quanto per timore che gli altri potessero accorgersi del fatto che chi era ritenuto l'orecchio più fino di Vienna fosse diventato sordo. In questo testamento si giustifica con i fratelli dicendo di non essere così misantropo come la gente lo dipingeva, si riteneva anzi la persona più buona del mondo. Beethoven lancia dal profondo del cuore un disperato appello alla bontà che lui sente dentro di se sin da bambino, ma che ha dovuto quasi occultare a causa del suo doversi appartare dal prossimo. Terribile per uno come lui, che amava la convivialità. Questo frangente doloroso coincide tuttavia con una svolta creativa. Se la sua produzione giovanile, per quanto geniale, rimane abbastanza legata ad alcuni canoni, dopo l'ottocento, nella seconda fase della sua evoluzione artistica (cosiddetta Eroica) e soprattutto in quella finale, il musicista sembra trovare nella solitudine la sua vera missione. Si configura l'idea dell'arte come elemento salvifico portato ai suoi termini estremi. La vicenda umana di Schubert non è poi così diversa. Anche lui, venticinquenne, fu colpito dalla malattia: una patologia venerea, molto probabilmente la sifilide, che ai tempi era quasi incurabile e avrebbe portato il compositore verso una forma di follia.

 



Due anni dopo averla contratta, nel 1824, scrive una lettera a un amico in cui dice: "Cosa ce ne facciamo della felicità quando l'infelicità è l'unica cosa che ci resti?" È una frase molto toccante, se pensiamo che è detta da un compositore che proprio da quel momento inizia a scrivere i suoi più grandi capolavori. Similmente a Beethoven, concentra tutte le sue restanti energie nella propria missione artistica, pur continuando a vivere e a coltivare le amicizie con quello spirito godereccio che gli era proprio. Si potrebbe parlare a lungo di questo immenso musicista, come pure sulla sua figura di primo artista indipendente, slegato, come Mozart o Beethoven, da committenti aristocratici, da arcivescovi o conti. È di rimarchevole interesse vedere come la vicenda artistica di Schubert, con lavori come la Wanderer-Phantasie, la Sinfonia Incompiuta, il ciclo di lieder Die schöne Müllerin e altri (siamo tra il 1822 e 1824), subisca una svolta che lo condurrà alle ultime grandi sonate, Winterreise, la Sinfonia N. 9 e tanto altro ancora.


L'APPASSIONATA DI BEETHOVEN

 



Nella scorsa lezione-concerto si è parlato della forma-sonata bitematica tripartita così com'era concepita nel '700, costituita il più delle volte da due temi, presentati nell'esposizione, elaborati nello sviluppo e ripresi nella ricapitolazione. Nell'Op. 57 di L.v. Beethoven i temi sono esattamente due. La cosa che ogni volta sorprende Stefano Ligoratti, soprattutto in questa sonata, è il fatto che l'autore facesse leva su elementi tematici davvero molto basici. La N. 23 è costruita sulla figura dell'arpeggio, cioè un accordo in cui ogni nota viene suonata una dopo l'altra e non contemporaneamente. Il primo tema appare tutto sommato banale

ma tutto quello che gli viene costruito attorno è incredibile. Un altro elemento è il ribattuto.

Su questi due fattori viene costruita l'intera sonata. Il compositore stesso affermò che era l'unico suo lavoro all'altezza, per lui tutto quello che c'era stato prima non era valido. In seguito lo dirà anche dell'Op. 78 (la Sonata N. 24 in Fa diesis maggiore "À Thérèse") e dell'Hammerklavier, ma l'Appassionata molto probabilmente rappresentava il punto di partenza di una nuova estetica. Questa comincia in maniera tetra con un arpeggio discendente

seguito da un momento di stasi

e una ripresa in senso questa volta ascendente.

È interessante notare come rispetto ad altri compositori dell'epoca, Beethoven utilizzi una scrittura un po' differente.

 



Qualsiasi musicista di quel tempo metteva più o meno delle distanze a un'ottava, entrambe le mani suonavano le stesse note ma vicine nel registro, lui invece posiziona la sinistra molto giù, nel registro più grave del fortepiano dell'epoca, e la mano destra due ottave sopra creando in questo modo un buco. Tale tecnica fu usata molto spesso da un compositore del '900 come Šostakovič, ma all'epoca di Beethoven risultava fortemente innovativa. Al termine della salita verso note più alte troviamo un inciso di chiusura, costituito da un trillo.

Lo stesso andamento lo troviamo nella quinta misura, ma un semitono sopra

cioè alla nota più vicina che c'è. È un'osservazione che ci dà il destro per introdurre un altro particolare, molto presente anche nella sonata di Schubert, che è la scala napoletana, costruita abbassando il secondo grado di un semitono. Si dà origine così a un tipo di cadenza decisamente orecchiabile, dal gusto orientale, formata sull'accordo di sesta napoletana, grazie a questo ci si può muovere un po' più liberamente in varie tonalità. Verrà molto usato anche nell'ambito di questa sonata. Nel discorso spunta fuori un ulteriore elemento: quattro note ribattute nel registro grave

che rievocano, con il senno di poi perché si tratta di un'opera posteriore all'Appassionata, il tema del destino nella Sinfonia N. 5.

Quest'inizio così misterioso richiama alla mente una frase dello stesso compositore: "se volete capire l'Appassionata, leggete la Tempesta di Shakespeare".

 



Si tratta di un'opera teatrale in cui il personaggio Prospero si ritrova in un'isola imprecisata del Mediterraneo, in compagnia della figlia Miranda, vittima di una sorte avversa che l'ha portato a perdere il suo potere. Gli altri personaggi sono il fratello Antonio e il Re di Napoli Alonso, uniti nel congiurare contro di lui. Tuttavia Prospero, grazie alle sue capacità magiche, riesce a scatenare una tempesta contro i due avversari. Perché Beethoven fa riferimento al capolavoro di Shakespeare? Non possiamo saperlo con certezza però la sonata ci fa intuire qualcosa mettendoci sulla buona strada. C'è sia l'elemento del destino avverso sia quello della tempesta, del brutale scatenamento di forze primordiali. Lo possiamo sentire nella precipitosa discesa di semicrome verso il registro basso della tastiera e la successiva risalita verso l'accordo coronato in piano

un "raptus" che nel terzo movimento diverrà una specie di "torrente di fuoco in un letto di granito", come amò definirlo Romain Rolland. Dalla Tempesta shakespeariana l'Appassionata mutua anche la saggezza di Prospero, il quale riesce a dominare gli elementi con la sua arte magica. Un'arte tutto sommato umana, assimilabile all'idea della sapienza che riesce ad avere la meglio sugli elementi riportandoli all'ordine. In effetti, l'Op. 57 si pone all'attenzione come estremamente volitiva, passionale, ma anche strutturata in quanto ferreamente controllata nella forma. Si rivela una specie di prodigio musicale, in cui Beethoven sembra rispettare i canoni della forma-sonata ma, alla nostra percezione, ha una concezione unitaria, come una specie di fantasia.

 



Nella ripresa, qualsiasi compositore sarebbe ritornato al tema così come si è presentato all'inizio, ma qui viene utilizzato un ribattuto che sortisce un effetto quasi disorientante su chi ascolta

tale da non far capire se si tratti di una ripresa o ci si trovi ancora nello sviluppo. Anche in questo caso emerge un altro frangente assolutamente innovativo rispetto alla tradizione. "Le regole sono fatte per essere infrante", pare suggerire l'autore. Per realizzare il ribattuto viene usata una delle note (do) dell'accordo, un accordo di quarta e sesta che nell'armonia e uno di quelli che più dà il senso di un qualcosa che sta per accadere. A un dato momento Beethoven sembra essere sul punto di riprendere il tema, ma esordiscono una serie di accordi "impazziti"

e solo dopo questi il discorso riprende da dove si era interrotto.

Ancora però si fanno avanti questi devastanti accordi sincopati.

Per giungere al tema successivo, si riadopera la tecnica del ribattuto

la quale dà l'idea di una fissità in cui appaiono sporadici lampi di luce violacea. Arriviamo così al secondo motivo che, rispetto ai canoni della forma sonata, è davvero molto simile al primo avendo il medesimo andamento ritmico.

Va nella tonalità relativa maggiore di fa minore (la bemolle maggiore). Un piccolo miracolo accade: il compositore si mantiene ligio all'idea di un primo tema più ritmico, volitivo, e un secondo invece più disteso, cantabile, allo stesso tempo però li apparenta rendendo unitario il procedere. Si affaccia poi una terza e conclusiva idea tematica in la bemolle minore

pure questa atipica poiché, solitamente, si passa da una tonalità a un'altra e poi si cerca di tornare a "casa", mentre Beethoven rimane sul la bemolle.

 



È un motivo che rende l'idea di uno sviluppo nel quale le seste napoletane tornano continuamente, insieme a queste c'è un tipo di scrittura in cui il pianoforte diventa molto "concertistico", nel senso lisztiano del termine. Non a caso proprio Franz Liszt fu uno dei primi pianisti a fare di questa sonata il proprio cavallo di battaglia, con questa Beethoven si spinge al di là delle aspettative di un pubblico borghese o soprattutto aristocratico, dirige il pianoforte verso una dimensione dialettica più oratoria, più spettacolare. Alla fine del primo movimento inserisce un "Più allegro" e al termine del finale un "Presto" che danno l'abbrivio verso un alto grado di spettacolarità, non meramente effettistica ma facente capo a un'esigenza interiore. Al pianoforte viene così riservato un trattamento che si può considerare già da grande sala, lo si rende in grado di esprimere un'eloquenza che all'epoca ancora non c'era e che si affermerà pienamente con Liszt, l'inventore del recital. Nell'Appassionata viene introdotto un effetto, già usato in precedenza, che qui trova una destinazione squisitamente spirituale; parliamo di quello che si ottiene tenendo premuto il pedale di risonanza. È quanto avviene in un passaggio prima della Coda, indicato in partitura con "sempre pedale", utile a creare una specie di "nuvola" sonora.

Ovviamente i pianoforti dell'epoca non sono come i nostri e tale effetto è lecito ipotizzare si avvertisse allora molto diversamente. In buona sostanza si viene a creare un clima di sospensione, un'attesa che di lì a breve esploderà nel "Più allegro".

 

 



Il secondo movimento è una specie d'isola felice, un Andante con variazioni abbastanza canonico nella costruzione. Parte piuttosto rilassato nella zona dei bassi

nel prosieguo si percepisce una velocizzazione del ritmo, abbastanza tipica nella forma della variazione. Susseguendosi queste, dal ritmo in quarti (semiminime) si passa a quello in ottavi (crome)

poi in sedicesimi (semicrome)

e infine in trentaduesimi (biscrome).

In conclusione di movimento ritorna il tema iniziale.

 

Il finale attacca subito già dentro il secondo movimento, senza dare alcun preavviso del suo inizio. In realtà questo si ha eccome perché Beethoven lo fa precedere da un accordo di settima diminuita arpeggiato da suonare in pianissimo, latore di una forte "suspense", cui ne segue un altro in fortissimo, secco e violento, come se si verificasse un subitaneo ritorno al tragico dolore iniziale.

L'Allegro ma non troppo esordisce con un accordo di settima diminuita ostinatamente ribattuto

seguito da un tema che verrà ampiamente sviluppato. Ricompare quindi quel ribattuto che abbiamo incontrato nel primo movimento, insieme all'accordo di sesta napoletana. "C'è una coesione tra tutti i movimenti", afferma Stefano Ligoratti, "che tendenzialmente cerco di avvalorare tenendo un tempo unitario in ciascuno. Lo faccio perché mi piace pensare che ci sia una costruzione che parte dall'inizio e termina alla fine, senza soluzione di continuità".

 



C'è soltanto tragico dolore nell'Appassionata? L'isola felice esiste ma è calata in un discorso assimilabile a un moto perpetuo

in cui il pianoforte continua a suonare e non si ferma praticamente mai. Nella sezione di sviluppo il compositore mette un ritornello

cosa molto rara a trovarsi, perché di solito lo possiamo rinvenire nella prima parte. Nel caso di questa sonata quindi non fa ripetere la sezione iniziale ma bensì la centrale, quella cioè dedicata allo sviluppo. Il "sempre più Allegro" porta a un'esaltante coda in "Presto"

che conclude l'opera in maniera esplosiva, non concertistica, istrionica, ma profondamente drammatica. L'Op. 27 è uno di quei pochi casi in cui Beethoven non approda alla gioia schilleriana, in un percorso che porta dall'ombra alla luce. Qui si parte dalle tenebre, si passa alla luce del secondo movimento, quasi un inno alla ragione, ma si ritorna alla fine verso l'ombra, verso una passionalità eminentemente drammatica, in tonalità minore, a differenza per esempio dell'Op. 111.


LA D. 960 DI SCHUBERT

 



Se l'Op. 57 di Beethoven ha un titolo, per'altro non datogli da lui ma dall'editore Cranz di Amburgo e poi accettato, la D. 960 di Schubert non lo ha. Paradossalmente potremmo dire, poiché questa è molto più narrativa dell'Appassionata, la quale ha invece un carattere molto teatrale, quasi da drammaturgia, in cui il pianista assume la veste di attore. La ventunesima e ultima sonata del genio viennese è più che altro assimilabile a un grande romanzo ottocentesco, molto diversa dall'Appassionata fin dal suo incipit e scritta nell'ultimo anno di vita del compositore, appartenente perciò alla sua ultimissima produzione. Non possiamo sapere se Schubert fosse o meno a conoscenza dell'imminente fine, ma molti hanno ravvisato in questa sonata una sorta di testamento. Dopo la fase acuta della malattia venerea, aveva ripreso un po' le forze. La critica, ma anche musicisti e appassionati, sono divisi nel ritenerla la visione dall'alto di un uomo già proiettato nell'al di là oppure di una persona ancora immersa nella vita e che nutriva delle speranze. L'apertura della D. 960 è apparentemente piuttosto serena, collocata nel calore del registro centrale del pianoforte. Il grande filosofo e semiologo Roland Barthes fece un'analisi bellissima dei lieder di Schubert, dicendo che quando Schubert canta nel registro medio, trova anche nei momenti di più intensa sofferenza una forma d'integrazione corporea, di calore, come se si sentisse a casa. "Heimath" (casa) è la parola che esprime questo sentimento, di grande significato per i tedeschi e gli austriaci essendo legata non solo alla casa intesa come abitazione ma anche come un rifugio dell'anima, di patria in senso ideale.

 



Quando il compositore si allontana verso l'acuto o verso il basso, rompe in qualche modo questa felicità per raggiungere una dimensione più demoniaca, di pericolo, d'inquietudine. Concetto che potrebbe ricollegarsi anche all'idea freudiana di "Unheimliche", ciò che ci allontana da una dimensione familiare. Il tema d'apertura

esprime una grande quiete, ruota intorno al "perno" del si bemolle, spostandosi di pochissimo, come un motivo circolare non presenta grandi salti. Arriva poi un accordo a interrompere questo clima di serafica pace

un elemento di "suspense", un po' com'era avvenuto nell'Appassionata seppur in modo meno evidente. Segue un trillo nel registro gravissimo in cui appare il sol bemolle, una nota non presente all'armonia iniziale, è l'elemento "napoletano" cui si faceva riferimento prima. Quest'entità estranea ci mette subito sul chi va là, quasi come un segnale di avviso. Dopo un lungo silenzio riprende il tema iniziale

si allontana un momento

per poi ritornare subito a casa.

Dopo, Schubert invece di andare verso una nuova cellula tematica ritorna su quella iniziale, trasfigurandola, in una tonalità che è in rapporto di terza con quella d'impianto, cioè il sol bemolle maggiore, portandolo in un'altra dimensione.

Il compositore sin dall'inizio non cerca una logica assoluta del discorso, una direzione ben definita, ma assume le movenze di un sonnambulo, di un viandante immaginario che procede in maniera onirica.

 



Le prime due pagine sono in pianissimo, immerse in una luce immaginativa, non succede quasi niente ma uno stesso tema viene diversamente affrontato sino all'apparire del forte.

Ritorna ancora ma questa volta parla con voce imperiosa. Si permane in una specie di movimento bloccato intorno a quest'idea finché non succede ancora qualcosa d'inaspettato, sconvolgente, la prima vera svolta di questo percorso onirico.

Dopo il lungo "pp" capita qualcosa d'inquietante, attraverso delle modulazioni grandemente audaci veniamo portati lontanissimo da dov'eravamo: dal si bemolle maggiore al fa diesis minore, mediante un procedimento che all'epoca era assolutamente rivoluzionario. L'entrante motivo in fa diesis minore sembra aprire una nuova strada nel cammino di questo viandante.

Non a caso si parla di "viandante": nello sviluppo del primo movimento Schubert inserisce un tema tratto dal lieder "Der wanderer", figura capitale della letteratura romantica. È un tema dattilico (una nota lunga e due brevi)

molto regolare a differenza dei beethoveniani. Il parallelo tra l'Appassionata e la D. 960 è scaturigine d'interessanti riflessioni, la prima s'impone con i suoi temi scabri, organizzati in forma di fantasia ritmica dall'andamento rapsodico, diversamente dalla sonata di Schubert, dove si apprezza un avanzare assolutamente regolare, come il passo di un camminatore. Non è un motivo qualsiasi, ma ripreso da un lied della sua gioventù, cosa che ci fa pensare a questa sonata come alla sintesi di una vita.

 



Non è la prima volta che il compositore viennese cita un proprio lied in un'opera cui dà particolare importanza, nel tentativo di mettere in connessione ciò che è diventato, un trentunenne disperato ma ancora con delle aspettative, con quello che è stato. Come Kakfa c'insegna con il suo detto "massima speranza, massima disperazione". Nutre il sogno di diventare un grande compositore, d'imporsi sulla scia dell'adorato Beethoven. Speranza e disperazione sono nel musicista fortemente concatenate ed emergono in una dialettica che si muove tra momenti di assoluta calma e altri di scatenamento di una dimensione infera. Nel primo movimento "Molto moderato", per quanto riguarda lo sviluppo troviamo un'altra modulazione molto importante che conduce dal fa a do diesis.

È ancora una volta lo stesso tema iniziale che si presenta, visto però sotto un'altra luce. Nella dinamica di questo primo movimento vengono introdotti degli episodi che troncano bruscamente l'atmosfera onirica che si è instaurata. Nella nostra immaginazione si configura una specie di rivolta che l'autore ha fatto verso il proprio destino e nei confronti di una società ostile. Tener conto delle circostanze umane in cui questa sonata ha visto la luce, ne aiuta certamente la comprensione. Si trattava di un momento cruciale della sua vita, nel quale si prospettava anche un conflitto con la religione. Sappiamo che sia Beethoven che Schubert avevano un rapporto molto stretto ma anche sofferto con essa. Nel lied "Mut" (Coraggio) di Winterreise (Viaggio d'inverno) il testo recita: "Se non c'è nessun Dio sulla terra, noi stessi siamo dei!"

 



Il compositore lo mette in musica con spirito tracotante, guidato da un moto d'orgoglio che colloca al centro l'uomo nella sua dimensione pagana. Molti dei lieder di Schubert sono legati al mondo greco, quasi a voler mettere in discussione il cattolicesimo viennese. Alcuni passaggi si presentano con una violenza devastante, come questi accordi che culminano nel fortissimo

e sottoposti a una strana progressione. Poi, come se niente fosse, compare una melodia spensierata e di grande candore, che qui ha un effetto straordinariamente ironico.

Il Molto moderato si chiude serenamente, così com'era iniziato. Luca Ciammarughi, prima di passare all'esecuzione integrale della D. 960, ci regala ancora qualche scampolo di approfondimento, come l'analisi del secondo movimento, quell'Andante sostenuto intriso di una dolente pensosità, esordiente con un tema che rappresenta il culmine della catabasi di questa enigmatica sonata.

In questa sorta di discesa agl'inferi, Schubert imbastisce un canto centrale (potremmo immaginarci una viola e un secondo violino) e degli elementi esterni

in pizzicato (un violoncello, secondo violoncello e violino). La stesura in questa situazione è davvero simile a quella di un quintetto d'archi, come se il compositore ci lasci immaginare molto più di quanto la scrittura pianistica in effetti faccia. Ci sono le suggestioni di una formazione cameristica, se non orchestrale. Anche qui appaiono delle modulazioni che trasportano in un universo visionario e sempre più staccato dalla realtà.

 



Diverse sono le soluzioni schubertiane che verranno impiegate nella musica del '900, non solo classica ma anche di gruppi di rock progressive come i Pink Floyd e i Genesis. Questo movimento si chiude con un luminoso do diesis maggiore.

Di colpo tutto si rischiara con lo Scherzo - Allegro vivace con delicatezza.

Con un tema molto giocoso, Schubert sembra ritrovare la gioia di vivere, almeno temporaneamente. Arriva il momento del finale "Allegro, ma non troppo", con cui si conclude l'ultima sonata del grande compositore tedesco. Un movimento di chiusura che non ci risparmia gli enigmi, come nell'Appassionata che è, seppur in modo diverso, anch'essa costellata di ambiguità. La prima la troviamo subito all'inizio, con un accordo in fortepiano di sol che suona "vuoto"

come sospeso nell'aria e che non ci consente di capire dove ci troviamo; potremmo essere in sol maggiore, sol minore oppure sul sesto grado del si bemolle.

Solo da una cadenza ci rendiamo conto di essere in si bemolle.

La D. 960 vive nell'alternanza di diversi elementi, alcuni più drammatici e altri più elegiaci, che fanno di questo capolavoro un cosmo emotivo dalla ricchezza inestimabile, il riassunto di una vita intera apparentemente povera di eventi esteriori ma assolutamente piena di accadimenti interiori. Erano quasi le 23 quando il pubblico ha abbandonato la Palazzina Liberty di Milano, forse non ancora sazio di musica; il tempo al suo interno sembrava davvero essersi fermato. Con dovizia di particolari i nostri due amici hanno sviscerato i "misteri" della loro forma e armonia.

 



Si riaffaccia l'eterna, "vexata quaestio", dell'attualità o inattualità di questi capolavori assoluti, se siano da considerare come "oggetti" da museo o materia viva. La risposta sta nella rivivificazione attuata ogni volta dall'interprete, che in realtà propone un qualcosa di tutt'altro che "avvizzito", e quindi archiviabile come già detto, ma una sorta di beniano teatro di scena, non definitivamente scritto, ma ogni volta sottoposto all'ispirazione, agli umori e anche alla fisicità del momento. In tal senso il pubblico ha potuto assistere alla riattivazione di due mondi e due interpretazioni molto diverse tra loro. L'Appassionata suonata da Stefano Ligoratti è arrivata ai nostri sensi con una potenza devastante, raccontata con mani dalla grande prestanza virtuosistica. Il pianista non ha attutito, ma estremizzato i contrasti nell'ambito di un accorto incedere ritmico, molto omogeneo. Gli improvvisi lampi di luce sono apparsi come delle autentiche sferzate, il tutto dominato da un controllo esemplare, sia intellettuale che tecnico, di questa difficilissima sonata. Luca Ciammarughi ci ha dischiuso dal canto suo un mondo in qualche maniera contrapposto al primo, che non vuole imporsi di forza, quasi coattivamente e con violenza sull'ascoltatore. Non stentoreamente ha lasciato scivolare le note con grande naturalezza, senza arroganza, facendo trasparire tutta la poetica di questo capolavoro dalla grandezza insondabile.

 



Quando l'orlo del baratro sembrava approssimarsi sempre più, con un colpo di teatro apparivano melodie giocose, confortanti, del tutto opposte alla paventata catabasi. Insorge allora in noi un senso non definitivo della nostra esistenza, un orizzonte azzurro sul quale contare, che appare magari all'improvviso, quando meno ce l'aspettiamo, rasserenando il nostro animo, Se l'Appassionata è opera difficile sia da eseguire che da ascoltare, forse questa D. 960 lo è ancor di più, nella modulazione di atmosfere cangianti che impongono improvvisi e ironici cambi di rotta. Solo un interprete finissimo può rendergli giustizia e Luca Ciammarughi lo è. Entrambi i musicisti hanno messo a nudo i loro rispettivi mondi, hanno riversato il loro vissuto, cultura, sensibilità in ciò che hanno eseguito. Due sonate, due universi inconciliabili? Non saprei, ma alla fine dell'ascolto è rimasto in me un "retrogusto" abbastanza simile. Una risposta al mistero dei nostri sentimenti e della vita altrettanto profondo, anche se colto percorrendo due strade differenti.

 




Alfredo Di Pietro

Febbraio 2019


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