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 Non capisco! Son profano! - L'opera lirica - Pianoforte e Cantante Minimize


 

 

VENERDÍ 21 GIUGNO 2019 - PALAZZINA LIBERTY MILANO

L'opera lirica - Pianoforte e Cantante
Arie d'opera varie, con Soprano

J. Peri - C. Monteverdi - A. Vivaldi - G.F. Händel - C.W. Gluck - G.B. Pergolesi - A. Salieri - W.A. Mozart - G. Rossini - V. Bellini - G. Donizetti - G. Verdi - C. Gounod - G. Puccini - R. Strauss

Stefano Ligoratti, pianoforte
Monika Lukács, Soprano




Si giunge infine al nono appuntamento della rassegna "Non capisco! Son Profano!", ultimo di un ciclo dal quale il novizio sarà certamente uscito con accresciuti mezzi culturali, utili ad avere una visione più consapevole e completa di una composizione musicale. Ci si potrebbe chiedere a questo punto se tali memorabili Lezioni-Concerto possano essere salutate come un nuovo inizio, un blocco di partenza "sperimentale" che auspichiamo un domani possa richiamare un più vasto pubblico. Rispondendo un incondizionato "si", prendo me stesso come cavia. Da appassionato di lungo corso, cosa ho assorbito da queste serate e, soprattutto, perché ho sentito sin da subito l'esigenza di fissarle in altrettanti report? Prima di tutto per rivendicare "sic et simpliciter" l'effetto taumaturgico della musica, la quale ci fa pensare, investe l'anima e genera emozioni. In secondo luogo, questi nove eventi sono meritevoli di stratificazione mnemonica per il solo fatto che tanti musicisti sono convenuti allo scopo di regalarci la loro arte e sapienza, aiutandoci (e qui c'è il valore aggiunto) a visitare le segrete stanze della musica, laddove a monte della percezione immediata c'è una costruzione in cui ogni palpito, ogni suggestione sembra avere un suo preciso perché "tecnico". Tuttavia, lungi dal ridurre la musica a mera analisi formale, armonica o strutturale (condizioni necessarie ma non sufficienti al suo godimento), rimane l'imponderabile, l'elemento sorpresa che emana da due stati d'animo reciproci: quello dell'esecutore e quello dell'ascoltatore, che sono mutevoli ed eventuali, sempre e comunque in grado di rendere uno stesso brano ogni volta una cosa completamente diversa.



E in questi nove appuntamenti i due elementi, lo strutturale e l'estemporaneo, hanno felicemente convissuto. Stasera si parla quindi di opera lirica, un genere sul quale in realtà si potrebbe fare un ciclo intero e non una singola Lezione-Concerto poiché sappiamo che copre più di quattro secoli di storia. Nasce nel 1598 con la Dafne di Jacopo Peri, su libretto di Ottavio Rinuccini, e prosegue sino ai giorni nostri, anche se nel corso del tempo ha subito delle trasformazioni radicali. Si tratta di un genere che ha riscosso un successo incredibile e che a tutt'oggi è radicato, molto presente nei gusti del pubblico, soprattutto in riferimento al grande repertorio ottocentesco; in verità non solo in questo perché nella seconda metà del '900 la riscoperta dell'opera barocca ebbe notevole impulso, insieme ad altri generi affini come il Singspiel (letteralmente "recita cantata") in voga tra il XVIII e il XIX secolo. Parlare di opera significa discorrere del racconto in musica in quanto essa sostanzia la propensione dell'uomo a narrare attraverso i suoni, una tendenza atavica che potremmo far risalire alla notte dei tempi. C'è un bellissimo libro dello scrittore inglese Bruce Chatwin, ambientato in Australia, che s'intitola "The Songlines" (Le vie dei canti); parla degli aborigeni d'Australia e della loro usanza di nominare gli oggetti del mondo attraverso delle melodie. Ogni cosa, un sasso, una casa, un albero veniva citato da queste tribù (e forse ancora oggi lo è) tramite dei canti. Tuttavia, questa inclinazione a descrivere in musica diviene opera a tutti gli effetti soltanto nel '600, o meglio negli ultimissimi anni del '500, quando fu appunto composta la Dafne, vero inizio di quel melodramma che perdura da secoli.



Come nasce l'opera? Attraverso la riunione in un salotto piuttosto piccolo di una serie di musicisti, intellettuali, artisti e scienziati. Nel 1573 a Firenze avvenne il primo convegno di questo gruppo, chiamato "La camerata dei Bardi" proprio perché si radunava in casa del conte Giovanni Bardi. Nel corso di tali "meeting" nacque l'idea di ritornare alla tragedia greca, al teatro in musica, imitando i greci antichi. In realtà l'operazione si risolveva in una specie di falsificazione poiché della musica di quei tempi poco o nulla si sapeva, come ancora oggi. Il concetto del riflusso alla grecità è ricorrente nella storia dell'opera, lo ritroveremo anche in R. Wagner con la logica del Wort-Ton-Drama, dove la Parola-Suono-Azione sono uniti in un tutt'uno. Emerge così l'opera d'arte totale, come entità complessiva in grado di combinare le varie arti, anche il ballo. Le trame di queste prime opere sono di carattere per lo più mitologico. Jacopo Peri e Giulio Caccini, entrambi laziali ma deceduti a Firenze, furono i primi compositori a interessarsene con Claudio Monteverdi. Al centro delle loro opere c'era il ritorno al mito, essendosi un po' persa la retorica cavalleresca, con dei titoli che si riferivano esplicitamente all'epopea mitologica: Dafne di J. Peri (che narra la storia di Apollo e Dafne), l'Euridice di G. Caccini (dedicata alla storia di Orfeo ed Euridice), l'Orfeo o l'Arianna di C. Monteverdi. Quest'ultima è un'opera del 1608 andata perduta, di essa ci rimane solo la celeberrima aria "Lamento di Arianna", che il compositore aveva provveduto a trascrivere in una versione per canto e basso continuo (clavicembalo o altri strumenti).



Il primo brano eseguito da Stefano Ligoratti e Monika Lukács è "Gioite al canto mio" dall'Euridice di Peri


Ci dà il destro per capire come scrivessero in musica questi primi operisti, un modo caratterizzato dal "recitar cantando", cioè l'unione di parola e suono, con una netta dipendenza del secondo dalla prima. Per questo motivo, il verso poetico condizionava moltissimo la linea musicale dandone l'abbrivio, non era quindi la parola serva della musica ma piuttosto il contrario. "Quest'opera", afferma Stefano Ligoratti, "era cantata da un uomo ma stasera sarà eseguita da una donna, che è una cosa un po' in controtendenza. Alle donne una volta non era concesso nulla e tutti i ruoli femminili venivano interpretati da maschi. Adesso ci prendiamo la libertà di far eseguire quest'opera a una donna". Si nota subito che "Gioite al canto mio" ha la caratteristica di presentarsi come una monodia accompagnata. Monteverdi in precedenza si era dedicato molto allo stile polifonico madrigalistico, con tante voci che s'intrecciavano, invece nell'opera, pur essendoci un rapporto complesso tra parola e suono, la musica si semplifica e diventa da polifonica a essenzialmente monodica, pur non mancando nel primo melodramma esempi di polifonia. Una citazione monteverdiana è d'obbligo, quindi il nostro duo voce/pianoforte esegue il "Lamento di Arianna", dove emergono le sue doti di raffinatezza espressiva e la flessibilità nel delineare il mesto canto. Il "Lamento" rappresenta il momento in cui Arianna viene abbandonata da Teseo e si lascia andare sconsolata allo struggente "Lasciatemi morire!"



Il compositore, dimostrando estrema genialità affida questa volontà suicida a un cromatismo discendente, una scrittura di carattere cromatico contraddistinta da un intenso senso di turbamento e dolore


Se pensiamo che si era nel primo '600, la modernità armonica di Monteverdi ha un qualcosa di realmente straordinario, tutti i grandi maestri che sono arrivati dopo hanno imparato tantissimo da lui. Ha gettato tutte le basi dell'armonia moderna, da compositore di altissima levatura. "Ci sono soltanto pochi specialisti", dice Ligoratti, "che affrontano questo repertorio. Bisognerebbe sentirlo un po' di più". Si potrebbe dedicare un'intera lezione soltanto al recitar cantando e alla nascita del melodramma, ma oggi si è deciso di fare un percorso a volo d'uccello su tutta la storia dell'opera. Dal mondo del '600 si passa a quello del barocco, in cui trionfa la "meraviglia", come diceva il poeta Giovan Battista Marino: "È del poeta il fin la meraviglia". Se il concetto di poesia coincide generalmente con il sentire dell'artista, potremmo attribuire questa peculiarità anche al musico barocco, in cui dev'essere ben presente il senso del meraviglioso, dello spettacolare, dell'intuizione, del "trompe-l'œil". Rispetto al recitar cantando, foriero di una grande attenzione in Monteverdi all'intima unione tra parola e suono, nel barocco s'impone invece l'aria di bravura, la quale vede al centro il divo, spessissimo un castrato, come il grande andriese Farinelli. Molte erano le "star" all'epoca, ognuna dotata di un soprannome; Nicolò Grimaldi, noto come il Cavalier Nicolino, Nicolino, o Nicolini, oppure Francesco Bernardi, noto anche come il "Senesino". Accanto a questi c'erano le cosiddette "prime donne", voci femminili "Lustrini per il regno dei cieli", come recita il titolo di un libro molto bello dedicato ai castrati; voci che erano al centro della scena e che quasi mettevano tutto il resto in secondo piano.



Per loro, più che il legame tra testo e musica era importante il lato virtuosistico: inanellavano gorgheggi, passi di agilità estremamente difficili, arie di colore condite con una scenografia che era creata apposta per dirigere tutta l'attenzione verso il cantante. Questo era sempre rivolto verso il pubblico, al centro del proscenio e non di spalle come spesso capita nelle regie moderne, cosa quest'ultima scorretta se si ha l'intenzione d'interpretare in modo filologico. Come esempio di opera barocca, viene eseguito un piccolo frammento: l'Aria di furore "Agitata da due venti" dalla Griselda di Antonio Vivaldi, opera andata in scena nel 1735


Nel breve esempio ci sono dei grandi salti, ampi intervalli che vogliono proprio dimostrare la destrezza vocale, agilità, la duttilità di quello straordinario strumento che è la voce umana. In una parola la "coloratura", vale a dire dei vocalizzi su singole sillabe in una successione anche molto lunga di note, il più delle volte eseguite con notevole velocità. È un tipo di canto che però venne talvolta contestato perché ritenuto schiavo di una volontà meramente virtuosistica, sostanzialmente esibizionistica dei cantanti. Avvenne, infatti, che i compositori dovettero soggiacere completamente alle direttive dei castrati e delle prime donne. Dal canto loro, gli autori dei libretti, soprattutto nel '700 il Metastasio, insistevano sulla dizione, sul fatto che le sillabe risultassero sempre chiare, evitando eccessi di ornamentazione che potevano compromettere la comprensibilità del testo; tale nitidezza di pronuncia la troviamo poi in autori del '700 più avanzato come C.W. Gluck, in cui si ritorna a una maggior semplicità. Anche nel mondo barocco ci sono comunque casi in cui questo virtuosismo lascia spazio a momenti più intimistici, nei quali l'espressione si fa più introspettiva e meno spettacolare.



Ne troviamo moltissimi esempi in G.F. Händel, uno di questi è "Lascia ch'io pianga" dal Rinaldo, opera italiana su libretto di Giacomo Rossi che vide la "premiere" al Queen's Theatre di Londra nel 1711. Il compositore era stato appena reduce da un viaggio in Italia durato quattro anni, dove era stato prima a Firenze, poi a Venezia, Roma e infine Napoli, nel corso del quale aveva assorbito lo stile italiano, poi unendolo con la propria sensibilità tedesca. L'italiano, soprattutto nella cosiddetta Accademia dell'Arcadia, è uno stile molto dolce, basato sulla cantabilità, con notevoli caratteristiche di levigatezza in Arcangelo Corelli, mentre quello di Händel era un po' più robusto, energicamente germanico. Grazie però alla lunga permanenza nel nostro Paese, il compositore si era lasciato permeare dalla tipica amabilità italiana, che ritroviamo in quest'aria


Nell'opera barocca comincia a imporsi l'"Aria con da capo", formalmente riconducibile all'esposizione del tema cui segue una parte "B", di solito più corta, e poi la ripresa del tema con delle variazioni, di solito decise dal cantante a seconda delle sue possibilità vocali. Si tratta di una forma tripartita con schema "A-B-A", particolarmente importante in quanto la rinveniamo sino all'ottocento inoltrato. "Lascia ch'io pianga" è cantata dal personaggio di Almirena, imprigionata dalla maga Armida, che implora in questo brano la restituzione della libertà. Per capire quanto nel barocco i cantanti e tutto il sistema teatrale fosse spregiudicato, possiamo riflettere sul fatto che quest'aria fu riciclata in un Rinaldo cosiddetto "impasticciato", fatto a Napoli, in cui la musica del compositore tedesco era mischiata a quella di Leonardo Leo.



Siccome il castrato che interpretava il Rinaldo amava molto questo brano, lo affidò al proprio personaggio facendolo passare dal secondo al terzo atto e cambiando anche il testo. Nel periodo barocco ci si permetteva quindi una grande libertà nel rimaneggiare i brani all'interno dell'opera, che venivano spostati e modificati a piacimento dei divi cantanti. Precedentemente al Rinaldo, la musica nei teatri non era così diffusa poiché la si faceva nei palazzi; per esempio, l'Orfeo venne dato nel fiorentino Palazzo Pitti, mentre nei teatri l'opera diventava un qualcosa di pubblico dominio. Una curiosità sulla storia del teatro d'opera è l'approccio con cui si andava alle rappresentazioni: spesso considerate come un momento di società, non concernente soltanto il godimento della musica ma anche altre attività. Luca Ciammarughi a riguardo legge una voce dall'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert del 1751, scritta da Grimm, in cui si racconta cosa succedeva a teatro nel nostro Paese: "Tutti sanno che in Italia il popolo non si raduna a teatro solo per vedere lo spettacolo, ma i palchi sono diventati altrettanti circoli di conversazione che si ricambiano più volte nel corso della rappresentazione". In questi si parlava, mangiava, si amoreggiava addirittura perché erano fatti in modo tale da essere nascosti e favorire anche attività erotiche in un andazzo che proseguì sino al primo '900. "Si è soliti passare cinque o sei ore all'opera, ma non certo per prestare cinque o sei ore d'attenzione". Questo ci fa riflettere sul fatto che quando oggi qualcuno riprende una "clip" con un cellulare, oppure si sente un bisbiglio, tutti s'indignano perché condizionati dalla mentalità dell'ascolto "religioso" nato nell'800.



Nel '700, al contrario, non si richiedeva al poeta "che qualche situazione patetica, qualche scena molto bella e poi si passava sopra a tutto il resto. Due, tre arie, una scena molto bella, sono più che sufficienti per il successo di un'opera e si rimane indifferenti al dramma nel suo insieme". Si profilava uno spettacolo quindi molto diverso da come viene concepito oggi, anche proprio a livello della reazione del pubblico. A questo mondo un po' sregolato, tentacolare dell'opera barocca diede un freno Christoph Willibald Gluck con la sua riforma, fatta insieme al librettista Ranieri de' Calzabigi nel 1769. Il genere operistico stava diventando una specie di varietà e lui, in una sorta di manifesto, nell'Alceste si rivolse contro tutti quegli abusi che per troppo tempo avevano deformato e reso ridicolo quello che era il più splendido degli spettacoli. La musica andava ricondotta al suo vero compito, che era di servire la poesia per mezzo dell'espressione, di seguire le situazioni dell'intreccio senza interrompere l'azione e, soprattutto, senza soffocarle sotto inutili superfluità e ornamenti. Si ritornò allora a una maggiore semplicità, di cui è esempio un piccolo estratto dall'opera Elena e Paride di Gluck, interpretato sempre da Stefano Ligoratti e Monika Lukács: "O del mio dolce ardor"


Nel brano si coglie la grande semplicità dell'accompagnamento, fatto di accordi ribattuti, e nella melodia, reso famoso da un film che l'ha utilizzato nella colonna sonora: "Dimenticare Venezia". Prima di andare ad Antonio Salieri e il '700 è importante citare le "querelle", i dibattiti, discussioni all'interno dell'opera, di cui famosa fu quella francese tra "lullysti" e "rameauisti".



Jean-Baptiste Lully, nato Lulli, era in realtà italiano ma naturalizzato francese, padre della "tragédie lyrique". Nonostante lo stretto rapporto con la Francia, aveva dato alle sue opere uno stile complessivamente italiano mentre Rameau aveva portato il genere verso una grande sofisticatezza, anche armonica, e una varietà orchestrale di tutto rispetto, contestata da Jean-Jacques Rousseau che preferiva il più semplice stile italiano. Una ancora più importante fu la "querelle des bouffons", nota anche come la "guerre des coins". "Chi erano questi bouffons?", dice Luca Ciammarughi, "erano le compagnie itineranti di cantanti e musicisti italiani, un po' sgangherate ma molto efficaci e piene di pathos del far musica, che attraversavano la Francia e l'Europa, in particolare Parigi, dove furoreggiavano a tal punto che misero in discussione la supremazia della tragédie lyrique e del mondo aulico che ruotava intorno all'opera francese. L'intermezzo, genere nato come breve spettacolo buffo allestito tra un atto e l'altro delle opere serie italiane, che diede la stura a questa polemica fu "La serva padrona" di G.B. Pergolesi. Assolutamente geniale nella concezione, nella sua semplice spontaneità portava una ventata di gioiosa italianità in un mondo iper-raffinato, ma di cui forse gli stessi francesi erano un po' stanchi poiché era arrivato sino alla sofisticatezza più spinta. Aggiunge Stefano Ligoratti: "La serva padrona è un intermezzo, cioè una vera e propria opera corta da inserire all'interno di un'altra, dalla durata non superiore alla mezz'ora.



In genere si rappresentava durante i cambi scena, i quali potevano essere anche complicati, per intrattenere il pubblico. Ci sono tantissimi intermezzi che sono stati dimenticati, ma è in atto una loro riscoperta con anche diverse incisioni discografiche che vi invito a conoscere. La serva padrona è il più famoso italiano giunto sino a noi". Da questo ascoltiamo l'Aria di Serpina "Stizzoso, mio stizzoso", deliziosamente cantato dal soprano ungherese


Emerge uno stile di grande freschezza, immediatezza con la sua onomatopea, in una vicenda che narra di Serpina, la serva che riesce a sposare il suo padrone. Il mondo di Pergolesi apre quindi al "sottogenere" dell'opera buffa, in contrasto con la seria. Con il prossimo ascolto si va verso un esempio aulico di opera seria, l'"Europa riconosciuta" di Antonio Salieri. Intorno a questo compositore c'è tutta una leggenda nera legata alla morte di Mozart, originata da alcune mistificazioni che furono fatte sulla sua figura e dal film "Amadeus" di Miloš Forman. In realtà Salieri era molto rispettato alla sua epoca, pensiamo al solo fatto che fu maestro di Beethoven, Schubert, Czerny, Hummel e Liszt, imponendosi come straordinario insegnante. Fu anche compositore di grande levatura, padre di alcuni capolavori come "Les Danaïdes" su testo francese e "L'Europa riconosciuta", riscoperta di recente (nel 2004) e rappresentata la prima volta alla Scala di Milano, diretta da Riccardo Muti. In quest'opera ci sono molte arie ancora legate al periodo barocco, con tanta coloratura e agilità, ma troviamo anche momenti più neoclassici che potremmo avvicinare quasi allo stile scultoreo di Canova.



Salieri, in effetti, è generalmente conservatore, rispetto a Mozart osa molto di meno nell'affrontare la nuova sensibilità, quella della cosiddetta "Empfindung", un sentire che condurrà al primo romanticismo. Da quest'opera ascoltiamo la stupenda Aria di Semele "Fra mille pensieri". Nella didascalia l'autore scrive "Con moto lento e interrotto", una tipica tecnica di canto del teatro d'opera che troviamo non solo in Salieri ma anche in Händel, per cui una frase viene interrotta da pause evocando un'atmosfera di riflessione. Dopo Salieri, non può certamente mancare la citazione di un brano mozartiano, precisamente da un "Singspiele", per dare un esempio inerente anche a questa forma, dove a delle parti cantate se ne alternano altre di recitazione. I personaggi quindi parlano e cantano. Tale genere può essere considerato quasi un antenato dell'operetta o comunque di altre forme d'opera che troviamo nell'800 inoltrato, come la francese "opéra-comique", chiamata così non perché sia comica ma in quanto messa in scena nel Théâtre national de l'Opéra-Comique di Parigi. Opere a volte tragiche, come la celeberrima Carmen di Bizet, la quale appunto alterna parti cantate e parlate. Comica a tutti gli effetti era invece l'"opéra bouffe". Il ratto dal serraglio (Die Entführung aus dem Serail, K 384), insieme al Flauto magico (Die Zauberflöte) è uno dei Singspiel più belli in assoluto e ci catapulta nel fatato mondo mozartiano, fatto d'immaginazione e stretta collaborazione con il librettista. Improvvisamente irrompono una serie di esotismi, di situazioni, anche di riferimenti massonici nel Flauto magico, i quali rappresentano una trasformazione del meraviglioso mondo barocco in qualcosa d'altro.



Questa avviene poiché Mozart non si limita a evocarlo tramite la spettacolarità e i virtuosismi vocali, ma introducendo una nuova sensibilità che ci traghetta verso l'800. Se pensiamo a un'opera come il Don Giovanni, vediamo che nel 1800 spesso è stata caricata di certi valori romantici che inizialmente non erano previsti; era comunque un genere ancora indirizzato vero il divertimento, qualcosa che doveva suscitare piacere nell'ascoltatore accompagnandolo in modo vario. Naturalmente, per la sua natura sublime a questa musica sono stati attribuiti alti significati, basti pensare alle profonde riflessioni del filosofo Søren Kierkegaard proprio sul Don Giovanni. Il ratto dal serraglio è ambientato in Turchia, la storia narra delle vicende di Belmonte, angosciato dal fatto che la sua fidanzata spagnola Konstanze è stata rapita dai pirati e venduta come schiava insieme alla sua ancella inglese Blonde. In questa surreale avventura Konstanze (strano nome per una spagnola) diventa la favorita del Pascià mentre Blonde, impersonata da Monika Lukács nella "clip", viene offerta in dono a Osmin, l'accigliato sorvegliante del serraglio nella corte del Pascià Selim. Tali "turcherie" venivano messe in scena da Mozart in una maniera che un po' esorcizzava la paura dei turchi, questi erano alle porte di Vienna e c'era davvero il timore che gli infedeli invadessero l'occidente (cosa che si presenta ciclicamente nella storia). Mozart giocava con l'apprensione: la nota marcia alla turca, per esempio, tradisce l'intenzione di allontanarla. Ascoltiamo, rapiti dall'amabilità del soprano ungherese e dall'intensità dell'accompagnamento pianistico, l'Aria di Blonde





Un elemento che differenzia l'opera dal Singspiele è il recitativo, forma di composizione comunemente usata anche negli oratori e nelle cantate nella quale l'esecutore si esprime mediante uno stile prevalentemente sillabico, quasi un discorso parlato di uno o più personaggi. È usata come parte di "movimento". Il recitativo può essere "secco", quando accompagnato da un clavicembalo o un fortepiano che produce degli accordi, oppure "accompagnato" se a questo si unisce il contributo dell'intera orchestra. In ogni caso è privo della continuità di una linea melodica. L'aria nel '700, in particolare nell'opera barocca, serviva per approfondire il sentimento del personaggio dal punto di vista psicologico, mentre il recitativo richiama più l'azione. Da Mozart transitiamo a Rossini, un compositore fondamentale nella storia dell'opera, in particolare per la buffa, qual era Il barbiere di Siviglia, una delle più note in assoluto con il suo perfetto meccanismo. Gioachino Rossini nel suo percorso artistico si cimentò con tante modalità operistiche differenti, anche la seria e Maometto II è un ottimo esempio in tal senso; da questa ascolteremo un brano dall'intensa voce di Monika Lukács. Con la sua ultima grande creazione operistica, il Guillaume Tell, arrivò ad affrontare il genere prettamente del "grand opéra", rappresentazione di dimensioni gigantesche che contava almeno quattro se non cinque atti. Al suo interno c'erano molti balletti, un dispiego imponente di mezzi scenici, molto maggiore di quello della tragédie lyrique che andava a sostituire.



Con Rossini si verifica pure un certo cambiamento di mentalità nel modo di fare l'opera, non tanto per causa sua ma per l'impresario cui si affidò, il napoletano Domenico Barbaja, personaggio luciferino e geniale che portò Rossini a sbaragliare la concorrenza viennese. Tutti i compositori tedeschi, compreso Schubert e altri, dovettero fare le spese del suo incredibile successo e di quello dell'opera italiana a Vienna; com'era già avvenuto per Pergolesi in Francia, la ragione di un consenso così impressionante stava nella forza, nell'immediatezza, nell'irresistibile vena melodico-ritmica che invece l'opera romantica tedesca, più introspettiva, non possedeva. Due sono gli esempi rossiniani che i nostri musicisti ci propongono, il primo è l'Aria di Rosina "Io sono docile, son rispettosa" dal Barbiere di Siviglia mentre il secondo, per contrasto, è tratto dall'opera seria Maometto II, ambientata in Turchia durante la guerra tra veneziani e turchi: l'Aria "Giusto ciel, in tal periglio!" (Preghiera di Anna). Narra del momento in cui le donne veneziane si recano al tempio per pregare quando la città di Negroponte viene invasa dai turchi



A proposito di dive, ciò che più catalizzava l'attenzione del pubblico era l'acuto, in ogni opera lo si aspettava con ansia e a volte non era nemmeno scritto in partitura, ma improvvisato dal cantante. I direttori d'orchestra hanno iniziato nel tempo a ripulire gli eccessi canori poiché si era arrivati a un tale livello di sporcizia sulla partitura che c'erano acuti ovunque, sovente preceduti da una sospensione della musica, foriera di aspettative. In alcuni casi anche sbagliando perché il compositore sapeva che il cantante avrebbe messo l'acuto in un certo punto e neanche se ne preoccupava di scriverlo.



Afferma Ligoratti: "Per eseguire questo tipo di repertorio bisogna avere una buona conoscenza di tali meccanismi perché se uno non sa niente, legge la partitura e va dritto senza fermarsi nel punto cruciale. È uno di quei casi in cui l'interprete comanda sul compositore." È stata scelta quest'aria di Rossini anche per far comprendere a chi non lo conoscesse bene che si trattava di un compositore veramente complesso e lontano da quel cliché di puro divertimento e di leggerezza sempre un po' frivola che spesso gli viene affibbiato." In effetti Rossini, con questa sua cantabilità che parte da Mozart ma già si rivolge verso un nuovo mondo, apre totalmente la via al genere belcantistico romantico. Per questo intendiamo innanzitutto la produzione di Bellini, poi Donizetti. Di Bellini, il pubblico presente ha potuto ascoltare il celeberrimo cantabile della cavatina "Casta Diva" dalla Norma, testimone di una somma inventiva melodica, sicuramente la pagina più celebre composta dal musicista catanese

Norma è un personaggio molto complesso, sacerdotessa dei Druidi; moltissimi conoscono questa cavatina ma più raramente si parla del contesto in cui viene inserita dal compositore. Lei è la figlia del capo dei Druidi, Oroveso, lo scenario è collocato nelle Gallie, in Francia, all'epoca della dominazione romana e Norma è stata amante del proconsole romano Pollione, dal quale ha avuto due figli. Come spesso avviene, non solo nell'opera ma anche a teatro fin dai tempi della tragedia greca, c'è il contrasto tra le ragioni del cuore e la ragion di Stato, lei è quindi divisa fra l'amore per Pollione (il nemico, essendo romano) e il suo essere gallica.



La famosa scena rievoca la poesia di Leopardi, sostiene Luca Ciammarughi, con la sua atmosfera lunare e l'appartenenza al suggestivo mondo di un romanticismo che riscopre la notte, il misto di Eros e Thanatos che questa nasconde in sé. Norma si rivolge alla luna con dei versi molto toccanti: "Casta Diva che inargenti queste sacre antiche piante", la vede amica, in grado di aiutare la sua popolazione: "Tempra ancora lo zelo audace, spargi in terra quella pace che regnar tu fai nel ciel". Come Medea poi deciderà di uccidere i figli, anche se alla fine non lo farà. Non sempre accade, ma l'opera romantica, rispetto alla corrispettiva letteratura, è generalmente più incline al lieto fine, proprio per la sua natura di spettacolo meno estremo che ancora nell'800 persisteva, al confronto per esempio con il romanzo gotico. Non a caso Norma, Traviata e Carmen furono tre fiaschi alla prima perché erano opere che andavano contro i gusti convenzionali. Nell'800, rispetto al virtuosismo di coloratura del barocco, alle voci si chiedeva una sempre maggiore potenza, come pure nel mondo strumentale, anche perché i teatri e le sale da concerto diventavano sempre più ampie. Con Vincenzo Bellini varchiamo le soglie di un cosmo, quello del melodramma italiano ottocentesco, fatto di talento e frenetica produttività. Il compositore scrisse Norma in soli tre mesi. Il più grande esempio di questa fecondità è Gaetano Donizetti, al punto che a volte veniva malevolmente chiamato "Dozzinetti" in quanto alcune sue opere minori vengono considerate quasi ordinarie per il fatto di essere state scritte in fretta e furia, ciò che in ambito letterario si rimproverava anche a Honoré de Balzac.



Sappiamo che lo scrittore era incontestabilmente un genio, tuttavia per guadagnarsi da vivere stilava convulsamente anche dei romanzi non al livello dei migliori della "Comédie humaine". Lo stesso Bellini, noto per avere un dono melodico incredibile, aveva secondo i tecnici qualche difetto nella capacità di orchestrare, di gestire la sonorità dell'orchestra in maniera efficace. Di Donizetti non ascoltiamo un'aria intera ma un momento cruciale che rappresenta la follia di Lucia di Lammermoor: quell'"Ardon l'incensi", vero momento topico dell'opera. Il tema della pazzia si trova in tante altre opere dell'epoca, per esempio nella Sonnambula di Bellini o nel personaggio Elvira dei Puritani, e apre a un universo romantico che ama personaggi di questo tipo. L'interessante di questa scena è che la follia non è rappresentata mediante un virtuosismo spettacolare, atto a mettere in scena una forma di nevrosi, ma attraverso dei silenzi, un turbamento che si manifesta nello smarrimento della protagonista. "Pensavamo di eseguire interamente la Scena della pazzia", dice Monika Lukács, "ma dura effettivamente quattordici minuti e non possiamo disporre di tanto tempo. Magari in futuro potremmo mettere insieme scene di questo tipo, che sono tantissime, in una prossima occasione. Questa sera perciò faremo soltanto la cadenza, dove al posto del flauto suonerà il pianoforte." Il flauto risponde ai gorgheggi della cantante a una distanza di sesta dalla voce, come se fosse immagine della sua mente





Osserva acutamente Luca Ciammarughi: "Con una grande intuizione, Donizetti riesce a rendere l'idea del perdersi nella follia evocando quasi un ritorno alla dimensione infantile, una "Vox coelestis" che richiama la purezza dell'infanzia nel decostruire i gorgheggi e fargli rivivere in un modo diverso dal virtuosismo dei classici." Arriviamo quindi a Giuseppe Verdi, anche su di lui si potrebbe fare un intero ciclo di Lezioni-Concerto. La Traviata è un esempio di opera che ebbe insuccesso, o comunque difficoltà, alla prima rappresentazione del 1853 alla Fenice di Venezia. Fu però ripresentata con tutt'altro esito l'anno seguente, sempre a Venezia, al Teatro San Benedetto in una versione differente, cantata da interpreti più bravi e diretta dal compositore stesso. Le maggiori difficoltà sorsero con la censura, che costrinse Verdi a rimaneggiare l'opera, addirittura riscrivere alcune parti insieme al librettista Francesco Maria Piave. Il compositore era partito con l'idea di suscitare qualcosa di estremo, dicendo a Piave: "Ti prego di adoperarti affinché questo soggetto sia il più possibile originale e accattivante nei confronti di un pubblico sempre teso a cercare in argomenti inusuali un confine alla propria moralità." Cercare il confine significava spostarlo verso cose anche immorali; in questo sta molta della genialità di Verdi, nel capire che fra i censori all'epoca della Restaurazione e il pubblico desideroso di rinnovamento, soprattutto di scacciare quel moralismo che era ritornato, c'era veramente un abisso. L'autore ebbe allora questa straordinaria intuizione, alla base in fondo di tutto il grande teatro, sapendo benissimo che i cantanti dovevano essere anche attori.



Esiste una famosa lettera di Verdi a proposito del Macbeth, in cui dice che Lady Macbeth più che saper cantare bene deve saper recitare e far sì che la sua voce sia caratteristica, andare oltre il bello per aprirsi talvolta ai "brutti" suoni ma pregni di una particolare espressività. Basata sull'opera teatrale "La signora delle camelie" di Alexandre Dumas (figlio), la Traviata narra la storia di una cortigiana, una prostituta di alto bordo (Violetta Valéry), che folleggia nella Parigi mondana finché non incontra Alfredo Germont. Lui s'innamora di lei e cerca di farle capire che le vuol bene, in questo momento emerge il dissidio interno di una prostituta immersa in un ambiente che non bada assolutamente al sentimento "Sempre libera degg'io folleggiare di gioia in gioia, vo' che scorra il viver mio pei sentieri del piacer". Si crea quindi un conflitto tra la gioia dell'erotismo da parte di una mantenuta, quella che nelle opere di Puccini si chiamerà "Grisette", e l'improvvisa scoperta del vero amore. Dopo un momento di esitazione, nel quale si affaccia l'interrogativo "Sari'a per me sventura un serio amore? Che risolvi, o turbata anima mia?", Violetta torna sui suoi passi con la celeberrima cabaletta "Sempre libera degg'io". La tisi poi troncherà ogni speranza portandola alla morte


La nona e ultima Lezione-Concerto si avvia alla fine, non può mancare a questo punto un esempio di opera francese, attinto dalla produzione di Charles Gounod: Roméo et Juliette del 1867, nota vicenda dei due amanti veronesi che viene reinterpretata dal musicista di Parigi anche con momenti di una certa leggerezza, come lo scintillante "Je veux vivre"





Abbiamo sentito, infine, un frammento da G. Puccini e Richard Strauss, gli ultimi due compositori che scrissero opere in modo tradizionale; con loro possiamo parlare di post-romanticismo. Autore del primo frammento è R. Strauss, dall'Aria di Zerbinetta: "Groß mächtige Prinzessin", opera Ariadne auf Naxos; da G. Puccini i nostri musicisti hanno deciso di farci ascoltare la bellissima Aria di Magda "Chi il bel sogno di Doretta" da un'opera che purtroppo non si sente molto spesso, la Rondine, scritta tra il 1913 e il 1915


All'inizio fu concepita come operetta ma l'autore volle tramutarla in un'opera vera e propria, in collaborazione con il commediografo Giuseppe Adami. Fu rappresentata per la prima volta a Montecarlo nel 1917 con buon successo. La sua trama è molto vicina a quella della Traviata, protagonista Magda, una giovane cortigiana che trascorre le sue giornate in una cornice mondana nella Parigi del secondo impero. Per una notte vive l'illusione dell'amore. Nell'aria proposta lei dice: "Che importa la ricchezza se alfine è rifiorita la felicità!" Ritorna il contrasto tra il sogno di felicità romantico e la voglia di una vita più leggera, temi ancora molto presenti oggi nella nostra società. È forse per questo che l'opera è ancora così viva nell'immaginario collettivo e può essere talvolta adattata a regie che pur tradendo la filologia, fanno leva sul carattere universale dei sentimenti.




Alfredo Di Pietro

Settembre 2019


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