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martedì 19 marzo 2024 ..:: Intervista al maestro Francesco Caramiello ::..   Login
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 Intervista al maestro Francesco Caramiello Riduci


 

 

Alfredo Di Pietro: Caro maestro, nel ringraziarla per l'intervista concessami, vorrei iniziare con una domanda di rito: com'è nata la sua passione per la musica e il pianoforte?

Francesco Caramiello: Sono io che sento di ringraziarla per essersi interessato a me! Per rispondere alla sua domanda, direi che la mia passione per la musica e il pianoforte è nata perché da piccolo andavo scoprendo in casa strumenti musicali. Ma più che questi era la loro memoria ad incuriosirmi, perché questi strumenti avevano tutti una storia da raccontarmi, una storia lontana che per vari motivi non interessava più a nessuno. Tuttavia la loro presenza si imponeva: si trattava di quattro arpe Erard delle quali due Impero a doppio meccanismo e due a triplo della seconda metà dell’Ottocento, tre pianoforti, dei quali uno piccolo da tavolo del primo Ottocento, un verticale Kraus degli anni ‘10, un mezza coda Mason & Hamlin degli anni ‘30, un armonium, un harmoniflûte, un violino, un mandolino Vinaccia ed infine una gusla montenegrina! Grazie a mia nonna seppi che il mio bisavo Giovanni era stato caposcuola della grande tradizione arpistica a Napoli e maestro di Elena del Montenegro e che suo fratello Sebastiano era stato arpista alla corte dello zar Alessandro III. Ho fatto così in tempo a godere della presenza di questi oggetti, superstiti di un’altra epoca, così come di conoscere personaggi straordinari della mia famiglia. Fra questi mio nonno, che era stato sindaco di Ercolano, appassionato di archeologia e mecenate, oltre che ultimo conservatore di un patrimonio, anche storico e culturale, andato poi in parte perduto. Era un personaggio singolare ché fra i suoi hobby aveva quello delle orchidee, che coltivava in enormi serre, tanto che in una casetta in fondo all’azienda viveva un giardiniere che se ne occupava, Libereso Guglielmi, grande amico di Italo Calvino, il quale a questi aveva dedicato la sua prima raccolta di racconti e che lo aveva ispirato nel personaggio di Cosimo ne Il Barone Rampante (anche i nomi dei suoi familiari erano calviniani: Germinale, Ominia). Ero però più legato a mia nonna, che si era diplomata in arpa col suocero Giovanni, e ai suoi fratelli, una facoltosa famiglia di industriali di origine italiana in Brasile, e fra questi soprattutto mi incuriosiva Ciccillo Matarazzo, che era stato un importantissimo mecenate, amico dei più grandi artisti del Novecento. Assieme ai cataloghi della Biennale, che si svolgeva in un enorme museo costruito a San Paolo a sue spese, che puntualmente ci spediva, vi erano sempre dei dischi per me e fra questi ricordo La mer di Debussy diretta da Toscanini, che a quell’epoca  trovai però insopportabile, perché avevo cinque anni e avevo voglia solo ascoltare i Valzer di Chopin e poco altro! Ciccillo lasciò in eredità allo stato anche la sua collezione personale, contenente fra l’altro una cinquantina di quadri di Picasso, Chagal, Mirò e di altri importati pittori. Ogni anno faceva visita a mia nonna, lo ricordo benissimo seduto, posato il suo bastone, con il bicchiere di whisky in mano, ad ascoltare le mie modestissime improvvisazioni al pianoforte, come fossero una cosa serissima. Fu lui a far arrivare per mia zia, una pianista dilettante, dagli Stati Uniti quell’incredibile Mason & Hamlin, altrimenti inspiegabile a Napoli! Non mancarono per me quindi né fonti di ispirazione, né personaggi che avrebbero potuto spronarmi a intraprendere degli studi seri, ma, come dicevo, il tutto finì piuttosto presto e rimase per me solo un bel ricordo (più tardi scoprii, per esempio, che il padre di mia nonna aveva avuto una relazione con Guiomar Noaves della quale era stato mecenate). La generazione successiva è stata sciagurata: per esempio alle arpe erano state tolte le corde per evitare che mia nonna potesse riprendere a suonarle, in quanto mia zia aveva maturato la bizzarra convinzione che sarebbe accaduta una disgrazia ogni qualvolta lo facesse, e fra l’altro faceva tremende scenate se mi sorprendeva a suonare di nascosto il suo pianoforte a coda. Ma, per quello che ricordo, aveva un grande talento e suonava magnificamente molti brani di Chopin, ma solo quando ne aveva voglia, quasi mai alle mie richieste, e anche questo mi ha spinto a interessarmi al pianoforte piuttosto che all’arpa, che non ho mai potuto ascoltare. D’altra parte i miei genitori erano totalmente disinteressati a me; devo invece al fratello di mia madre, direttore di banca e appassionato di musica, se ho avuto l’opportunità, molto più tardi, di poter studiare seriamente il pianoforte: dapprima con un suo antico amico di scuola e poi con Vincenzo Vitale. Con quest’ultimo recuperai molto rapidamente il tempo perduto, ma dopo soli due anni il Maestro finì improvvisamente. Ho quindi proseguito gli studi a lungo con Massimo Bertucci e mi sono perfezionato con Aldo Ciccolini. Ancor oggi sento la necessità di farmi ascoltare ogni tanto dal mio maestro Bertucci! Mi sono inoltre diplomato in composizione sotto la guida di Bruno Mazzotta, caposcuola napoletano e grande maestro di contrappunto.

 

Con il nonno Francesco Saverio Caramiello - 1969

 

ADP: Lei ha suonato con prestigiose compagini come la Philharmonia Orchestra, l'Orchestra giovanile del Mozarteum di Salisburgo e l'Orchestra Sinfonica Siciliana, tanto per citarne tre. Come riesce a conciliare la sua visione poetica, così personale e delicata, con quella degli altri artisti con cui collabora, siano essi pianisti, orchestrali o appartenenti a formazioni cameristiche?

FC:  Per me è stata sempre la cosa più facile del mondo, anche perché ho avuto la fortuna di collaborare con musicisti straordinari come Francesco Libetta, col quale ho registrato i brani per pianoforte a quattro mani di Giovanni Sgambati, o, sempre per quanto riguarda l’integrale di questo Autore, con il Quartetto Ex Novo di Venezia. Verso la fine degli anni ‘80 fui scelto, stavo appena per diplomarmi, da Francesco d’Avalos per la registrazione dell’opera orchestrale completa di Giuseppe Martucci che aveva appena iniziato a registrare  a Londra. Più tardi eseguii con lui il Secondo Concerto in si bemolle minore op. 66 dello stesso autore al Barbican Centre e di quell’esperienza serbo un bellissimo ricordo. Il Maestro d’Avalos era decisamente un anticonformista: gli fu sufficiente ascoltarmi suonare ad un saggio al Conservatorio di Napoli le 33 variazioni sopra un valzer di Diabelli op. 120 di Beethoven per decidere, comunicandomelo immediatamente, che avrei dovuto ben presto eseguire e registrare a Londra con lui i concerti di Martucci. Avrebbe potuto scegliere qualsiasi blasonato pianista in carriera, ma quello che cercava era la fedeltà al testo, e forse un modo di suonare che gli era congeniale, essendo stati noi entrambi discepoli del grande Vincenzo Vitale.

 

 

ADP: Le confesso di non riuscire a vestire i panni di un intervistatore "obiettivo", dopo aver ascoltato le sue magnifiche interpretazioni della musica pianistica di Giovanni Sgambati e Giuseppe Martucci. Avrei su questi due autori mille domande da farle ma mi limito a una sola, che contiene anche un'ipotesi. La sua aderenza alla loro poetica, che ha dimostrato essere totale, deriva forse da una sorta di affinità elettiva spirituale?

FC: Non posso negarlo, più passa il tempo e più mi rendo conto che la mia storia personale ha influito molto sul mio modo di suonare e sulle mie scelte: per quanto riguarda il mio interesse verso la musica italiana, soprattutto dell’Ottocento, direi che forse è stato il salvataggio che feci in extremis dell’archivio musicale del bisavo, che i miei avi avevano conservato gelosamente e che mia madre era fermamente intenzionata a dare alle fiamme per fare spazio, a sensibilizzarmi. Si tratta di lavori a scopo didattico, non è quindi paragonabile all’opera dei grandi musicisti da lei citati, ma ha una sua importanza, anche storica e recentemente sono state eseguite e registrate diverse composizioni dalle arpiste Letizia Belmondo, Mara Galassi, Sara Simari, dal duo Alchimia, ecc. Ma forse fu soprattutto l’influenza di Vincenzo Vitale, che aveva un particolare amore per Martucci e che mi fece studiare per il compimento inferiore la Tarantella op. 44 n. 6, a motivarmi. Avevamo una mattina appuntamento agli scavi di Ercolano per una visita, ero stato il giorno prima da lui per la consueta lezione settimanale, e mi portò, per farne delle fotocopie, la Tarantella: “Mi è venuto in mente stanotte che forse potresti eseguirla. Vedi, penso a voi allievi anche la notte!” disse. Dopo la visita agli scavi fece una capatina a casa con la sorella Cetti e i due rimasero incantati visitando l’enfilade di salotti e il giardino, che gli fecero venire alla mente un loro amico, Francesco d’Avalos, che stava, era il 1983, restaurando lo storico palazzo di famiglia. Che fatto curioso che qualche anno dopo sarei stato scelto proprio da d’Avalos per eseguire Martucci! Successivamente, tra mille difficoltà, sono riuscito a portare a temine la registrazione integrale della musica per pianoforte di Sgambati. Sono passati oramai molti anni, ma sono sempre contento quando, e non avviene di frequente, posso riproporre in concerto musiche di questo Autore, cosa che avverrà prossimamente in quanto eseguirò a Pescara nel gennaio prossimo con il quartetto Noûs il Secondo Quintetto op. 5 oltre che due importati composizioni pianisiche, il Preludio e fuga, op. 6 e la Suite in si minore op. 21 inframezzate dalla celeberrima Mélodie de Gluck.

 

Jorge Luis Borges riceve il Premio Latinoamericano di letteratura da Ciccillo Matarazzo - 1976

 

ADP: Può dirci o anticiparci qualcosa sulle sue prossime uscite discografiche?

FC: Si tratta di due CD ai quali tengo molto e che entrambi saranno pubblicati dalla Tactus: il primo, contiene tutto quanto ha scritto Ottorino Respighi per pianoforte a quattro mani e l’ho registrato avvalendomi della preziosa collaborazione di Gabriele Baldocci, col quale avevo da poco eseguito in un recital per due pianoforti la Prima Suite op. 5 di Rachmaninoff e musiche di Busoni, Chabrier e Liszt. Lo abbiamo registrato sul mio nuovo Bechstein modello D, uno strumento davvero prezioso, selezionato dal grande tecnico Angelo Fabbrini. Il secondo disco comprende i due Quintetti per pianoforte e archi di Francesco d’Avalos, dei quali il secondo con soprano e li ho registrati con lo splendido Quartetto Noûs e con l’eccellente Leslie Visco, con i quali li ho eseguiti per l’Associazione Scarlatti di Napoli, che ne ha anche sponsorizzato la registrazione. Vorrei dire qualcosa in merito a questa incisione alla quale tengo particolarmente, che è inoltre una prima assoluta: avevo ascoltato più di trent’anni fa questi brani in un concerto nella villa Pignatelli di Napoli, era il 1986, e da allora avevo sempre desiderato eseguirli ma non si era mai presentata l’occasione. Dei due Quintetti per pianoforte ed archi, il primo fu composto nel 1963 e il secondo, dalla gestazione lunghissima, fu iniziato nel 1959 e completato nel 1985, con voce di  soprano su testi di Schiller e Lenau (in realtà si tratta di una trascrizione di ampissime sezioni della Seconda Sinfonia per soprano e orchestra). Il compositore diresse personalmente perché, anche se questi brani hanno un organico ridotto, in realtà un direttore sarebbe necessario per via della loro complessità ritmica. Fu dunque in quell’occasione che ebbi modo di conoscerlo. Fui invitato al concerto da Antonio Florio, che era stato allievo di d’Avalos per la composizione ed era in quegli anni mio maestro di musica da camera, il quale mi aveva incuriosito parlandomi dell’uso della consonanza nel linguaggio del Maestro, uso che non poteva in alcun modo essere ricondotto alla tonalità. Questa musica fu per me una vera rivelazione e mi stupii moltissimo che un compositore di tale statura fosse ignorato dal mondo accademico napoletano, che, impermeabile a tutto quanto avesse sconvolto la musica nel mondo occidentale, andava riproponendo ad usum delphini le solite stanche formule bartokiane e skryabiniane, se non addirittura raveliane e martucciane, come all’epoca del nostro caposcuola della composizione, Gennaro Napoli! La musica del Maestro, invece aveva rapidamente attraversato e liquidato l’avanguardia già negli anni ’50, anticipando da un lato il ritorno ad un tipo di sonorità tardo-romantica, segnatamente bruckneriana, ritorno che avrebbe caratterizzato il Penderecki del Paradiso Perduto (1976/78) e dall’altro aveva recuperato un uso estensivo della consonanza. A questo riguardo azzarderei un paragone con i Quartets I-VIII (1976) di John Cage, nei quali inni sacri americani del XVIII sec. vengono rielaborati in una veste personale e stilizzata quale memoria di un passato ancestrale, così come accade ad un passato idealizzato nelle composizioni di d’Avalos. Il dipanarsi di lunghe frasi melodiche apparentemente tonali formulate su elementi costitutivi già singolarmente presentati nel corso della composizione, prefigurano lo Stockhausen del Donnerstag aus Licht (1977/1980), in particolare del secondo atto strumentale. Mi sembrò allora che la musica di Francesco d’Avalos appartenesse ad un’epoca indefinita o meglio ad un un mondo parallelo dove, seppur il peso della tradizione fosse presente, egli si ritrovasse ad anticipare le postavanguardie e il minimalismo, anche se generalmente si associano le correnti minimaliste alle composizioni di autori quali Terry Riley o John Adams caratterizzate da reiterati frammenti di un talora vacuo vitalismo yankee, mentre qui gli elementi costitutivi erano allucinate atmosfere del sinfonismo del tardo Ottocento. Per me quella era la musica del passato e del futuro!

 

Londra - 1989

 

ADP: Nel CD dedicato a Ives, Copland e Carter lei mostra una grande attitudine a muoversi in mondi poetici e situazioni "linguistiche" molto diversi tra loro. Da cosa deriva quest'ecletticità e il desiderio di spaziare in ambiti così variegati?

FC: Anche qui vi intravedo l’influenza di un grande personaggio che ha segnato la mia infanzia, zio Ciccillo! Forse pecco di psicologismo? Certo che a vedere i cataloghi della Biennale di San Paolo degli anni ‘70 vi erano cose molto interessanti, anche folli, e così un po’ alla volta, sebbene inizialmente non sempre ero interessato a quanto andavo scoprendo, ho maturato un forte interesse per l’arte contemporanea, avendo i bambini una naturale curiosità verso le cose astratte. L’amore per gli Stati Uniti proviene anche dal fatto che viveva con noi uno zio americano, essendo la mia una famiglia allargata (si viveva tutti in quella che era stata ai tempi d’oro una casa di villeggiatura ad Ercolano). Lo zio Morris era uno spirito libero, molto diverso dagli altri componenti della famiglia e anche i suoi familiari risiedenti al sud degli Stati Uniti, erano musicisti! Avevo otto anni quando costoro vennero a farci visita, e fra questi la sorella, la zia Esther: la ricordo benissimo, come fosse ora, a prima mattina già seduta al mio pianoforte Kraus, ancora in bigodini e vestaglia (qui in casa c’era una rigida etichetta, tutti rigorosamente ben vestiti a prima mattina, un bell’esempio di educazione militaresca vedeva mio nonno lucidarsi le scarpe all’alba). Era questa una vestaglia rosa confetto con dei ponpon legati con dei cordoncini alle maniche. Zia Esther eseguì una sua composizione, una specie di poema sinfonico dedicato a un “bastimento” e mentre suonava si girava verso di me per illustrarmi i momenti drammatici nel quale il “bastimento si infrangeva sugli scogli” e durante gli assordanti tremoli nei registri estremi della tastiera i ponpon sobbalzavano freneticamente. Ogni volta che riprendo i Sea Pieces di MacDowell o gli Studi di Ives non posso non ricordare la zia Esther, la sua vestaglia rosa confetto, i bigodini ed i ponpon!

 

Con Francesco d’Avalos e la Philharmonia Orchestra - Londra 1991

 

ADP: Nella sua interpretazione di "Hommage à Rameau" ritrovo tutta la vena squisitamente introspettiva già conosciuta in Sgambati e Martucci, ma anche alcuni altri caratteri che contraddistinguono le sue letture. Parlo della tecnica egregia, la capacità d'immergere l'ascoltatore in un'atmosfera avvolgente e un virtuosismo mai fine a se stesso, ma sempre legato all'espressività di ciò che sta suonando. Sono doti naturali o raggiunte grazie a una tenace disciplina?

FC: Pur volendo ammettere senza troppa convinzione che io abbia queste doti che lei così generosamente mi attribuisce, direi che c’è forse l’influenza del mio carattere, timido e introspettivo. Ma la tendenza alla visione neoclassica, al naturale riserbo è soprattutto una caratteristica dei napoletani. Il Maestro Vitale, che ogni tanto si lamentava del mio essere troppo composto al pianoforte (in realtà era, secondo me, implicitamente un’autocritica al suo rigoroso magistero dove ogni singolo gesto veniva studiato, seppure in funzione espressiva), mi disse durante una lezione, molto compiaciuto: “eppure hai ragione tu! Come diceva Croce, l’arte non è sentimento, ma contemplazione del sentimento”. Direi quindi che si tratta anche di un retaggio culturale oltre che il frutto di uno studio meditato, perché sono piuttosto meticoloso ed indeciso prima di aver letteralmente il coraggio di eseguire un brano in pubblico. Si potrebbe obiettare, e forse giustamente, che a volte possa mancare una certa estemporaneità, ma non posso farci nulla, quella la posso acquisire solo dopo diverse esecuzioni e purtroppo è diventato così difficile oggi poter eseguire più volte di seguito lo stesso programma!

 

Nagoya 1999

 

ADP: Come giudica il pianismo odierno? Sta vivendo forse una moda, nel senso di tendenza verso un particolare stile o atteggiamento, oppure lo ritiene vario ed eventuale?

FC: Trovo ci sia stata nel recente passato una tendenza verso la trasgressione, pilotata scientemente da alcuni maestri e dagli organizzatori, una ricerca del sensazionale, anche del brutto, dell’insano, diciamo anche della truffa. Come era prevedibile però, l’amore verso l’arte nel senso più elevato sarebbe tornato: per esempio, dopo interessanti ma scomposti fenomeni pianistici provenienti dalla Cina, oggi domina la scena concertistica Yuja Wang, che ritengo sia una delle pianiste più straordinarie della storia. È incredibile come si possa suonare, per esempio, il Secondo Concerto di Brahms, con una tale inventiva e freschezza, come si possa dire ancora qualcosa di nuovo e di vero. Tutto questo con una serietà commovente e con un grande amore e rispetto per questo capolavoro, senza parlare delle sue doti virtuosistiche che hanno dell’incredibile.

ADP: Non si sente foriero di un approccio al pianoforte distante da certe modalità odierne, talvolta basate sul profitto, scarso approfondimento stilistico, glamour e una visibilità prorompente (quanto effimera) legata alle leggi del marketing?

FC: Seguo in realtà solo il mio istinto e quanto i miei maestri, Vitale, Bertucci e Ciccolini mi hanno insegnato. Ho cercato inoltre di muovermi su repertori poco conosciuti o del tutto inediti, ma non sempre con successo. C’è un tipo di repertorio che in fondo non ha molto senso proporre al pubblico essendo più adatto ad un ascolto ripetuto, cosa che solo una registrazione può garantire. È un processo lungo e accidentato quello dell’allargamento del repertorio e poi ci sono diversi pubblici: quello italiano per esempio non è così interessato a certe novità, quello tedesco, americano o inglese al contrario ha una stimolante voracità al riguardo. Sulla base dell’esperienza personale ho potuto verificare tutto ciò, anche a mie spese, ma mi piace ricordare il grande successo ottenuto a Norimberga quando vi ho eseguito il Concerto per pianoforte e orchestra op. 15 di Sgambati con i Nürenberger Philharmoniker diretti da Fabrizio Ventura. Sul marketing invece, ahimè, non ci capisco molto, ma noto come illustri colleghi si promuovono, anche sui social e la cosa non mi piace sempre. Riguardo l’uso di Facebook vorrei rilevare che c’è chi lo utilizza generosamente per offrire idee, stimoli preziosi, ragionamenti personali di grande fascino e autorevolezza, chi lo usa fondamentalmente per promuoversi, chi invece non fa altro che lodarsi e imbrodarsi: quest’ultima opzione la trovo poco gradevole. Ma è pur vero che ogni artista deve avere una naturale propensione ad emergere, a volte a qualsiasi costo ed è sempre stato così. Ma ci sono anche esempi di musicisti che non hanno nulla da dire e, nonostante ciò, si industriano, anche con una certa genialità, al fine di emergere, in qualche caso riuscendoci pure! È un fatto misterioso, perché poi con i ritmi odierni tutto è destinato a sparire rapidamente, figuriamoci le cose inutili! Le leggi del marketing sembrano promuovere tutto questo, il che può essere davvero scoraggiante per un artista. Un altro nemico della creazione, o meglio, ricreazione artistica, può essere anche l’eccesso di stimoli ai quali si è oggi sottoposti, perché quello di cui si ha maggiore necessità è invece la concentrazione. Suggerirei piuttosto di cercare di ascoltare sé stessi chiudendosi nel proprio mondo, magari per lunghi periodi così come si faceva una volta, prima dell’era di Internet.

 

Città del Messico - 2015

 

ADP: Vivere di musica oggi è difficile?

FC: Generalmente ci si sostiene, per quanto riguarda la mia generazione, con l’insegnamento e con l’entusiasmo, ma non è sempre facile. Proprio i social ci fanno toccare con mano quanto le public relations siano fondamentali e non tutti siamo portati a queste cose o sappiamo metterci in gioco al riguardo. Così, su Facebook preferisco condividere il mio amore per la natura e soprattutto per i gatti.

ADP: Cosa pensa della critica musicale? Quale dev'essere a suo parere la funzione non solo delle testate giornalistiche, ma anche dei diversi "blog" presenti in rete? Molti osservatori disperano o sono comunque lontani dall'essere ottimisti in merito. Lei crede che, a dispetto delle apparenze, in Italia si stia vivendo un periodo di rinascita musicale?

FC: Certamente i blog possono rappresentare un importante spazio di riflessione e condivisione anche perché i giornali dedicano sempre meno spazio alla musica cosicché è l’iniziativa personale a infonderle linfa vitale. Se si sta vivendo oggi un periodo di rinascita ciò è possibile perché gli artisti si fanno promotori della loro attività e non parlo solo di quelle stagioni per scambi che non sono ovviamente una cosa seria, ma di divulgazione. Si pubblica molto, forse troppo in verità, ma ci sono moltissime cose di grande interesse anche se non è facile seguirle tutte. Fra le ultime cose notevoli che ho letto c’è un libro molto scrupoloso e profondamente analitico di Luca Ciammarughi su Schubert e due magnifici saggi sulla musica pianistica americana di Emanuele Arciuli. Queste pubblicazioni, assieme a molte altre, fanno pensare che effettivamente ci sia un periodo di rinascita, naturalmente siamo in un momento di profonde trasformazioni e di crisi, e la politica non aiuta anche perché le emergenze sono altre, ma il grado di civiltà si misura secondo me proprio dalle cose apparentemente inutili, che sono poi quelle che danno senso alla vita.


Alfredo Di Pietro

Agosto 2019


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