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 AMIATA PIANO FESTIVAL 2018 - EUTERPE - 27/07/2018 Riduci

DAVID HELBOCK - PIANO JAZZ

 



Beethoven - Settima Sinfonia, Secondo Movimento
Masks (Helbock)
Eros (Helbock)
AM - Anonymous Monkaholics (Helbock)
Spiritual Monk (Helbock)
Kiss (Prince)

1999 (Prince)
Hedwig's Theme (John Williams)
Duel of the Fates (John Williams)
Schindler's List (John Williams)
Escapades (John Williams)
The Soul (Helbock)

Purple Rain (Prince)
Utviklingssang (Carla Bley)



THE DARK SIDE OF THE PIANO

 



David Helbock, è lui l'uomo nuovo del Jazz. Alto, tratti gentili, guadagna con passo un po' dinoccolato il palcoscenico del Forum Bertarelli. Indossa un cappellino lavorato a maglia con effigiata la tastiera di un pianoforte. Un'occasione da afferrare al volo quella del 27 luglio, visto che è stata la sua unica esibizione italiana da solista nell'anno corrente e la sola in Toscana. David nasce nel 1984 a Koblack, un piccolo villaggio dell'Austria, inizia a suonare il pianoforte a sei anni. In seguito studia al conservatorio di Feldkirch con Ferenc Bognar e, a partire dal 2000, lega il suo destino a quello di Peter Madsen, pianista jazz che diventa suo insegnante, consigliere e amico. L'eco della sua genialità si diffonde presto nel mondo. Limitandoci a questi due ultimi anni, nel 2017 è nominato per "Echo Jazz 2017" nella categoria "Piano Internazional" e nel 2018 vince in Austria una borsa di studio statale per la composizione. Non che il riconoscimento del suo valore non fosse già avvenuto anni addietro, per esempio nelle numerose entusiastiche recensioni dei suoi CD e, nel 2011, con la vincita del più prestigioso premio austriaco, l'"Outstanding Artist Award", ma è nel presente anno che conquista l'ambito premio del pubblico al Jazz Festival Montreux. Intensa è la sua partecipazione alla vita musicale internazionale, con diverse tournée e registrazioni in molti paesi come Stati Uniti, Australia, Messico, Russia, Brasile, Argentina, Cile. Pianista di grande carisma, è forse nel campo della composizione che la sua attività ha un qualcosa di realmente fenomenale.

 



Penso al progetto "One-Year Compositional Project", in cui si è impegnato nella titanica impresa di scrivere un nuovo pezzo ogni giorno per un anno. Nel 2010 è stato pubblicato il suo "Real Realbook", con oltre seicento pagine di musica. Nella volta stellata di LED del Forum Bertarelli le luci si attenuano, rimane un solo spot sul Fazioli gran coda e sul protagonista di questo lunare concerto. Durante il suo corso ero seduto in prima fila, con il privilegio di avere David Helbock a pochi metri di distanza. Mi cospargo il capo di cenere nel confessarvi che non lo conoscevo e, per questo, non avevo nessuna intenzione di far parte di quei "distratti" (qualche critico musicale ha usato una parola più forte...) che hanno voluto snobbare questo concerto. Per una singolare concomitanza di eventi, nella stessa sera c'era stato il fenomeno della "luna rossa", un'eclissi che ha favorito il senso di straniamento ricevuto ascoltando "Piano Jazz". Nel silenzio più assoluto l'austriaco attacca la sua personale reinvenzione dell'Allegretto dalla Settima Sinfonia di L.v. Beethoven. Grande è la mia meraviglia nel veder affidato l'incipit di un concerto che si vorrebbe di jazz, sin dal titolo, a un brano del classicismo viennese, ma la sorpresa più grande è sentire come questo sia stato trasfigurato, quasi metamorfizzato in chiave moderna come una strascicata ballata blues. La perseverante pulsazione ritmica dattilo-spondilica rievoca il sentimento di un'inesorabile destino che avanza, in modo quasi rassegnato e non stentoreamente drammatico come nella quinta.

 



Helbock ne conserva lo spirito, pur stravolgendo la timbrica. Mentre suona alla tastiera una nota grave, con l'altra mano tocca la corda che vibra, così da generare un suono lugubre, carico di tenebroso pathos, come il rintocco di una grossa campana tibetana cui vengono precocemente smorzate le vibrazioni. In un'atmosfera diametralmente opposta esordisce "Masks". Non sono infrequenti gl'improvvisi scarti umorali nella sua musica, si susseguono nella sapiente concatenazione dei brani che investono la sensibilità dell'ascoltatore, percepiti come un piccolo shock o, se vogliamo, come il passaggio attraverso una porta che ci consente l'accesso a mondi nuovi. David ha il dono di una genialità timbrica assoluta, il Fazioli presente sul palco mostra così i suoi lati più inesplorati, diventando in certi momenti irriconoscibile. Anche in questo pezzo utilizza la tecnica di suonare con una mano sulla tastiera, mentre la seconda fa tutt'altro: a volte spegne le risonanze ottenendo un suono ovattato, altre volte percuote direttamente le corde, lo fa con il pollice o con le quattro dita unite. In questo senso Masks, come d'altronde altri brani, si rivela una vera fucina di trovate atte a deformare i timbri per raggiungere, sempre e comunque, dei risultati di compiuto senso musicale. Sono dita prestanti che, alla bisogna, agiscono come degli smorzatori supplementari o scorrono lungo le corde per ottenere un effetto glissato sulla singola nota, come in uno strumento ad arco. Talvolta combina felinamente queste tecniche dimostrando, tra l'altro, una grande coordinazione nei movimenti.

 



Con le unghie striscia su una serie di corde adiacenti, il risultato è un evanescente arpeggiato. Pure il legno del pianoforte non viene risparmiato dal suo estro creativo, adoperato con intenti eminentemente percussivi. Questo modo innovativo di fare musica può essere in grado di mettere in seria difficolta le capacità decrittive del recensore, costretto anche lui a innovare il suo bagaglio di termini. "Eros" è un brano lento, meditativo. Quando suona "normalmente", così come fa la stragrande maggioranza degli altri pianisti, Helbock dà prova di un approccio sonoro lucido, vigoroso e incisivo, dal quale traspare la sua formazione classica. Le suggestioni timbriche evocate da questo pezzo puntano a creare delle zone di rarefazione, di un diafano che tende talvolta al livido. I nostri sensi percepiscono una materia sonora desolata, dov'è lecito perdersi, leopardianamente. Quell'originalità espressa anche con l'uso anomalo del pianoforte, che diviene tra le sue mani piovra tentacolare, si ritrova anche nella formazione con cui è solito esibirsi, il David Helbock Trio, dove il contrabbasso è sostituito da un ukulele basso, mentre il bravo Herbert Pirker suona magnificamente la batteria. Speriamo di sentirlo in un'altra occasione, magari sempre qui all'Amiata Piano Festival. Grande ammiratore di Thelonius Monk, David l'anno scorso ha voluto celebrarne il centenario della nascita con il brano "AM - Anonymous Monkaholics". Tutti gli elementi che hanno reso grande questo gigante del jazz, il fraseggio sghembo, gremito di cluster, la particolare diteggiatura e le armonie "strambe", connotano anche questo originale brano.

 



Non è peregrino ipotizzare che il jazzista austriaco, per sua indole, sia stato fatalmente attratto da Monk se è vero, com'è vero, che nel suo pianismo ritroviamo lo stesso virtuosismo ritmico, fatto d'improvvisi rallentamenti, di accenti spostati e una singolare abilità nel gestire le atmosfere dilatate, che in Helbock tuttavia hanno maggior pregnanza umana, al di là dell'eccentrica eleganza di cui sono adornate. Una conferma di tale affinità elettiva viene dall'interpretazione di Spiritual Monk, ballata elegantissima e dall'agogica sorprendentemente raffinata, srotolantesi nel tipico andamento monkiano, saltellante e asimmetrico. È la volta di Prince con i due brani di "Kiss" e "1999", qui la sua irresistibile verve ritmica, associata a stravaganze coloristiche d'ogni sorta, può sfogarsi a dovere. In Kiss, non c'è una mano questa volta a poggiarsi sulle corde ma i fogli di carta di uno spartito, messi prevalentemente nel registro centrale, che magicamente trasformano le poderose sonorità del gran coda Fazioli quasi in clavicembalistiche. È incredibile come il picchiettio delle corde sulla carta possa creare un elettrizzante effetto ritmico, futuribile, imprevisto e anche fortemente ironico. Emerge un uso quasi spregiudicato del pianoforte presente sul palco, non so quanto abituato a subire tali manipolazioni, visto che è avvezzo a vedersi adoperato per le musiche di Beethoven, Schumann, Brahms, Debussy, Piazzolla... Ad ogni modo, non è necessario sostenere uno sforzo tantrico per entrare nello spirito di questi brani, tale è la loro istintiva comunicatività.

 



David Helbock mostra una vitalità ritmica davvero inesauribile, ripete sino all'ipnosi veloci cellule ritmiche. Il brano si avvia verso la fine con un improvviso e deciso rallentando che interrompe il motore ritmico d'impianto per sfociare in una coda buffa, stranita e lunare. Non sarà mica un monito al concertista a non prendersi troppo sul serio e dare sfogo in piena libertà all'estro del momento? Propendo per questa ipotesi. Fascinazioni analoghe si affacciano nel settimo pezzo suonato, "1999", sempre a firma di Prince, dove nel finale viene usato il legno del pianoforte come percussione. Nel repertorio di questo artista non mancano le suggestioni visive, con la citazione di ben quattro musiche da film. La prima è tratta dalla colonna sonora di uno della serie di Harry Potter: Hedwig's Theme. Segue Duel of the Fates da "Star Wars", il tema di "Schindler's List" ed "Escapades". Anche in questi brani l'ascoltatore trova la strada, lo strumento giusto per uscire dalla realtà e immergersi in un mondo ideale, fatto di vastità astrali e voci cosmiche. Grazie a un panno nero messo sulle corde, il pianoforte diventa un fortepiano nell'enunciare il tema di Hedwig, sommesso ci parla di voci antiche. Poderosa macchina da guerra diventa in "Duel of the Fates", con i forti accordi iniziali. Sul tema poi s'innesterà una variazione in stile jazz che mette in luce l'abilità improvvisativa di Helbock. Nel suo cosmo s'intersecano a meraviglia frangenti delicati, ironici, malinconici, spruzzi di minimalismo in una "Saucerful of Secrets" che nulla esclude dei sentimenti umani.

 



Si potrebbe parlare di un fenomenale caso d'integrazione espressivo/stilistica, agevolata da una luciferina abilità a creare timbriche che variano volta per volta generando multiformi sensazioni. E non gli bastano le mani per tirarle fuori dal suo cappello magico. A un certo punto mette fuori degli aggeggi elettronici, dotati di un LED blu che ne segnala il funzionamento. Ma che roba sono? Gli scrivo privatamente su Facebook per avere lumi e lui, gentilissimo, mi svela l'arcano. Erano degli EBow, Electronic Bow (archetto elettronico), un marchingegno escogitato nel 1969 dallo statunitense Greg Heet, contenente un circuito elettronico e alimentato da una batteria da 9 V alloggiata nell'impugnatura. Funziona producendo un campo elettromagnetico che induce una vibrazione continua nella corda che si trova nel suo raggio d'azione, questo consente di ottenere un "sustain" illimitato, tale da emulare il suono degli strumenti ad arco. L'EBow agisce su qualunque chitarra con corde di metallo, ma evidentemente anche su quelle del pianoforte come dimostrato questa sera. Nel toccante "Schindler's List" l'esordio è affidato a sonorità da vecchia pianola. Escapades, dal film del 2002 "Catch me if you can", danno il destro per l'innesco di scoppiettanti variazioni in stile jazzistico, dove anche gli ammiccamenti al Bebop esigono la loro brava visibilità e David, camaleonticamente, sorprende ancora una volta con la sua grande ecletticità nell'aderire a stili e tecniche diverse. A questo punto il simpatico musicista vorrebbe congedarsi dal pubblico con l'ultimo brano in programma, "Soul", capolavoro d'intensità visionaria, che forse condensa tutto il coacervo d'atmosfere sentite sinora.

 



C'è però qualcuno nel pubblico che esprime la sua disapprovazione, rumoreggiando sommessamente. Alla fine è "costretto" a diverse uscite sul palcoscenico e all'esecuzione di due bis: Purple Rain, dell'amato Prince, e Utviklingssang di Carla Bley. Nell'arte visionaria di David Helbock ognuno di noi può trovare tenerezza, i lampi di luce dello sperimentalismo più astrale, assaggi di minimalismo e anche una genuina rabbia, il tutto sempre però ammantato di una grande umanità e, soprattutto, di una musicalità al di sopra di ogni sospetto. È proprio così. Lui dona sempre un senso umano a quella Odissea in cui il "traveller", dopo aver attraversato i più oscuri marosi, ritorna in un rassicurante alveo materno. Quando esco dal Forum Bertarelli mi trovo di fronte a un magnifico tramonto, dove il rosso fuoco s'intreccia con l'azzurrino del cielo. Sarà suggestione ma non sono più la stessa persona che un paio d'ore prima si era seduta nell'auditorium.

 




Alfredo Di Pietro

Agosto 2018


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