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 Intervista al maestro Maurizio Baglini Riduci

Teatro Verdi. Pordenone 28 maggio 2020

 

 

Alfredo Di Pietro: Maestro, un "rewind" temporale ci riporta al 2008, anno in cui lei avvia il progetto "Inno alla gioia", scaturigine dei numerosi concerti che darà in tutto il mondo con la Nona Sinfonia di L.v. Beethoven nella trascendentale trascrizione per pianoforte di Franz Liszt. Qual è lo stimolo principale che dodici anni or sono la spinse a un'impresa così ardua?

Maurizio Baglini: In realtà, una produzione di France Musique, gruppo Radio France, mi coinvolse per il ciclo integrale delle trascrizioni lisztiane delle Sinfonie di Beethoven, assegnandomi appunto la Nona Sinfonia, con l'aggiunta dei Soli e del Coro di Radio France – opzionali in partitura lisztiana – per l'ultimo movimento. L'occasione era ghiotta perchè il contesto – Musèe d' Orsay di Parigi – e il prestigio della Committenza giustificavano, all'epoca, per me, un'accettazione praticamente incondizionata, impreziosita dalla diretta radiofonica dell'emittente. A quel punto, poi, dopo un tale sforzo di apprendimento, si rese necessaria una sorta di “capitalizzazione” delle energie profuse, e passai all'idea della registrazione, in versione priva di Soli e Coro, registrazione che mi permise di entrare nel “roaster” di Universal, etichetta Decca. Il CD, uscito nel 2009, divenne il vero veicolo promozionale di questo progetto che ancora oggi rappresenta una sorta di “unicum”, per lo meno in riferimento alla mia storia personale di interprete.

ADP: Lei ha suonato questa trascrizione sia nella versione solistica, sia in quella con il coro e le voci soliste. Quale delle due le dà più emozioni?

MB: Oggi, dopo cento esecuzioni dal vivo, in dodici anni di esperienza continua legata a questo monumento pianistico, sono arrivato alla lucida conclusione che la versione puramente solistica sia più efficace e più spettacolare: Liszt stesso, infatti, si dichiarò perplesso dell'aggiunta del Coro e dei Soli e fece in modo che le dieci dita del pianista potessero comunque “coprire” ogni singolo dettaglio della partitura beethoveniana anche in assenza delle voci: il problema non è soltanto legato ad un discorso di volume di suono e proiezione del pianoforte rispetto alla massa corale, ma anche ad una notevole differenza fra agogica e fraseggio voluti da Liszt rispetto all'originale beethoveniano. In generale, coro e soli arrivano alla prima prova di assieme con la partitura di Beethoven, mentre Liszt, nel 1864, sognava il piccolo coro cameristico di Weimar, con un'attenzione maggiore all'importanza del pianoforte non più in quanto destinazione della trascrizione, bensì in quanto vero e proprio veicolo di diffusione culturale della magnificenza beethoveniana.
Ciò detto, parlando di emozioni pure, coro e soli sono sempre motivo di una profonda commozione: tuttavia, le emozioni sono una cosa, l'efficacia di un'operazione culturale un'altra. Di conseguenza, quando mi trovo da solo ad affrontare questo capolavoro, sono più teso e responsabilizzato, mi emoziono meno a livello di epidermiche sensazioni, ma forse riesco ad esprimere meglio ciò che Liszt ha saputo ricreare attraverso il concetto di trascrizione e rielaborazione concertistica.

ADP: Il 28 maggio U.S. è stata certamente una data importante per il suo cammino artistico: sul palcoscenico del Teatro Verdi, a sala vuota ma con diretta streaming e LED wall sulla facciata del teatro, ha suonato ancora una volta quest'opera colossale. Il concerto ha voluto celebrare il quindicesimo anniversario dell'inaugurazione di questa prestigiosa istituzione, ma anche credo rappresentare la lotta che il mondo dell'arte ha ingaggiato contro la terribile epidemia da COVID-19. Ritiene che la musica di Beethoven sia quella ideale per dare conforto nei frangenti più difficili?

MB: Beethoven è e sarà sempre un compositore contemporaneo a qualsiasi epoca: lo sarà anche fra cinquecento anni. La sua capacità di cogliere il caos del cosmo in maniera inequivocabile non ha barriere temporali, geografiche, ideologiche e non le avrà mai.
In tale occasione, la scelta è stata dettata dalla celebrazione dei quindici anni di vita del Teatro Verdi di Pordenone che, dal 2013, mi pregio di rappresentare in veste di programmatore dell'offerta musicale. Si è voluto dare un messaggio di propositiva e fattiva possibilità a riaprire il Teatro – una primogenitura a tutti gli effetti, per altro – nel momento in cui artisti e maestranze varie non avevano modo di sopravvivere e di far capire quanto fosse vitale il potersi esprimere. E' stato un segnale forte, un primo passo di ritorno alla vita o di rinascita, direi: una sorta di appello alla sensibilizzazione collettiva del fatto che il mondo dell'arte è necessario al fine di avere una società produttiva, dinamica, efficiente. Oltre a ciò, credo che la tematica legata al percorso esistenziale e collettivo che Beethoven disegna attraverso i quattro movimenti della Sinfonia sia stata particolarmente affine al messaggio di catarsi di cui tutti avevamo – e abbiamo ancora ! - bisogno.

ADP: Cos'ha provato lei, artista abituato a esibirsi di fronte a vasti pubblici in tutto il mondo, a suonare completamente solo in un grande spazio vuoto?

MB: È stato il concerto più emozionante e più faticoso, in termini di concentrazione, motivazioni ed energie spese, della mia vita. Sapere di essere visto in diretta da migliaia di persone e non poterle vedere, nè sentire nel proprio respiro, tosse e percezione della mia esecuzione in tempo reale, mi ha aperto nuovi interrogativi sull'ethos che una prestazione artistica deve saper sviluppare. Si è trattato di un concerto che ha cambiato la mia visione della funzione sociologica del fare musica dal vivo. Ho capito che lo streaming non sostituisce il pubblico in presenza, ma può dare emozioni, se fatto bene; ho capito che fra una ripresa dilettantesca fatta col cellulare ed una vera regia c'è un mondo, una possibilità infinita di scoprire nuovi modi di attualizzare la musica classica alla società odierna. Ho anche sviluppato interrogativi a cui darò forse mie personali risposte fra alcuni anni: mi si è aperto un bivio esistenziale!

 

Auditorium Fondazione Cariplo. Milano 4 febbraio 2016

ADP: Dev'essere una sfida, nel vero senso della parola, mandare a memoria le 208 pagine di una partitura così difficile e impegnarsi a eseguire oltre un'ora di musica. Per superare brillantemente l'impresa non sono ammessi cedimenti fisici nè tantomeno di concentrazione, che dev'essere la massima possibile per tutta la durata del brano. Ha mai avuto la sensazione che l'ascoltatore tendesse a passare in second'ordine l'altissimo valore del messaggio spirituale che questa musica contiene perchè principalmente attratto dal suo alto grado di spettacolarità?

MB: Certamente! Anzi, credo che gran parte del successo che questa versione lisztiana dell'opera garantisce sia dovuto alla performance nel senso più stretto del termine. Tuttavia, ciò non deve creare imbarazzo, anzi: la musica classica vive perchè esiste l'interprete, o traduttore che dir si voglia, che può renderla attuale, giorno dopo giorno. Condannare il pubblico solo perchè percepisce, non sempre, ma talvolta, una parte del messaggio comunicativo che il concerto rappresenta, è a mio parere una fortissima forma di miopia. Del resto: chi non si commuove quando vede un o una atleta stabilire un primato del mondo? Chi non si emoziona nell'apprendere la notizia di una grande scoperta scientifica? Si tratta di due modi diversi che l'essere umano ha per mettere se stesso di fronte ai propri limiti, capire se essi siano superabili e, talvolta, superarli !

ADP: Ascoltando la sua diretta di Pordenone del 28 maggio, ho notato in lei una maggior libertà espressiva nel suonare il sublime Adagio molto e cantabile rispetto ad altre occasioni. Ho apprezzato una gestione dell'agogica molto particolare, con addensamenti e zone di rarefazione, anche estrema. Com'è cambiata nel tempo, se è cambiata, la sua concezione intellettuale, emotiva e interpretativa di quest'opera?

MB: Credo che l'approccio cambi in continuazione, anzi lo spero: sarebbe una noia mortale dover codificare un'interpretazione e darla per definitiva.
Col passare del tempo, poi, mi sto accorgendo sempre di più quanto noi musicisti cosiddetti classici si debba imparare dal mondo del jazz e dell'improvvisazione in generale. Se il concerto dal vivo avrà ancora funzione e motivo di esistere, dovrà riportare in auge l'estemporaneità come parametro primario: in mancanza di ciò, anzichè ricreare pubblico ed interesse, continueremo a rimanere autoreferenziali e non daremo più una realistica ragione di esistere alla fruizione della musica dal vivo. Negli ultimi cinquant'anni, e soprattutto negli ultimi venti, la ricerca di una rifinitura esecutiva inappuntabile ha sostituito la bellezza dell'imprevisto!

ADP: Wolfgang Amadeus Mozart soleva dire che gli elementi fondamentali per un buon pianista sono la testa, il cuore e le dita. Quali di questi tre lei crede sia più sollecitato da questa trascrizione?

MB: Premesso che siano tre elementi onnipresenti in qualsiasi tipo di musica (persino i pezzi considerati facili non possono considerare scindibili questi elementi proprio perchè fondamentali!), nel caso specifico di questa trascrizione posso elencarli nell'ordine che mi crea maggior apprensione: testa, dita e cuore. Ma per il pubblico, il cuore deve rimanere l'elemento conduttore primario!

ADP: Se un domani volesse affrontare un'altra trascrizione lisztiana delle sinfonie di Beethoven, quale sceglierebbe?

MB: Sto affrontando la “Pastorale”, Sinfonia n. 6 op. 68: tecnicamente ancora più difficile della Nona, a mio parere, ma facilitata dal fatto che le poetiche didascalie beethoveniane e la sinestesia fra Natura e Musica siano inconfutabilmente chiare dalla prima all'ultima nota. In questo caso, a proposito di “cuore”, c'è un impatto diretto, viscerale, fra Natura ed emozione: una Sinfonia decisamente più immediata, nella propria bellezza, ma difficoltata da Liszt all'inverosimile in quanto a materiale utilizzato. Inoltre, bisogna considerare che una durata decisamente inferiore implica uno sforzo mnemonico e un tenuta di concentrazione più abbordabili rispetto a quanto impone la Sinfonia n. 9.

ADP: Tra tutti i concerti in cui ha suonato la Nona di Beethoven-Liszt, ce n'è uno al quale è rimasto particolarmente legato dal punto di vista emozionale?

MB: Questo recente a Teatro vuoto a Pordenone, per peculiarità del momento surreale che tutti stiamo ancora oggi vivendo.
Ricordo anche l'esecuzione in diretta radiofonica dall'Accademia Nazionale di Santa Cecilia di due anni fa: un concerto – quella volta con aggiunta di Soli e Coro - che dimostrò quanto l'efficacia della trascrizione lisztiana possa in fondo avere ancora oggi una funzione emozionale perfettamente attuale.
Due tappe esistenziali, per me, a tutti gli effetti.

ADP: Come ultima domanda, mi consenta di dirigere la sua attenzione verso l'Amiata Piano Festival, di cui lei è fondatore e direttore artistico. Il fermo 2020, dovuto all'epidemia virale, le consentirà di ripartire con ancora maggior slancio nella prossima edizione. Questa pausa, che è stata certamente anche di riflessione, porterà a qualche cambiamento o innovazione per il futuro?

MB: Premesso che speriamo di poter mantenere i concerti natalizi previsti in data 12 e 13 dicembre prossimi, la priorità del 2021 è quella di recuperare in toto ciò che è stato perso nel 2020: lo trovo un atto morale dovuto nei confronti degli artisti ai quali è saltato un impegno.
Di conseguenza, ciò che era stato già imbastito per il 2021, slitterà al 2022, e così via. Trovo immorale l'atteggiamento di alcuni enti che considerano il periodo attuale una sorta di black out e che sperano soltanto che tutto torni “come prima”. Il mio auspicio è che si possa certamente tornare a proporre anche ciò che attualmente non è proponibile – organici ampi con coro, orchestra e logistica non percorribile col distanziamento fisico - , ma che lo si faccia facendo tesoro di questa esperienza traumatica: voler cancellare le cicatrici e far finta che non sia accaduto niente è un atteggiamento culturalmente retrivo e diseducativo, a mio parere. Di sicuro, la tristezza e lo stress accumulati in questi mesi, uniti all'incertezza del futuro prossimo, devono invece rappresentare  uno stimolo ad essere creativi, propositivi e costruttivi. Se il Forum Bertarelli si fosse trovato in un contesto geografico diverso,  avremmo potuto offrire musica anche nella corrente estate del 2020: ma sarebbe stato poco edificante, data la perfetta acustica dell'auditorium, dato lo sforzo della Fondazione Bertarelli che ha investito per dotare il Festival di una sala fra le più belle e accoglienti nel panorama cameristico europeo, pensare di proporre un surrogato di quella che è una programmazione ambiziosa e ricca di contenuti.

 

Teatro Verdi. Pordenone 28 maggio 2020


Alfredo Di Pietro

Luglio 2020


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