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venerdì 26 aprile 2024 ..:: Intervista al maestro Giovanni Acciai ::..   Login
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 Intervista al maestro Giovanni Acciai Riduci


 

 

Alfredo Di Pietro: Maestro Acciai, la prima domanda è quasi d'obbligo: quando, come e dove nasce in lei la passione per la musica?

Giovanni Acciai: È nata quando, ancora molto piccolo, come tutti i bambini della mia generazione facevo il chierichetto e frequentavo una piccola chiesa di Albissola Capo, il paese affacciato sul mare in provincia di Savona dove sono nato. Ascoltavo l'organo, sentivo intonare i canti della liturgia preconciliare; anche io cantavo nel coretto parrocchiale e lì è nata la mia forte passione per la musica. Diventato più grandicello, non potetti più fare il chierichetto e il parroco, predisponendo le mie qualità musicali, m'incitò a studiare seriamente musica, cosa che io feci. Il suo obiettivo, in un paese così piccolo, era in realtà quello di potermi utilizzare come organista per le semplici funzioni della liturgia. Io invece volevo intraprendere un percorso di studi rigoroso e allora, dopo i primi rudimenti ricevuti da don Tassinari, un eccellente organista di Savona, volli prima sostenere gli esami di ammissione al Conservatorio di Milano e poi, terminato il "cursus studiorum" del Liceo Classico, mi trasferii in quella grande città per frequentarlo. Il mio percorso di crescita musicale proseguì quindi con lo studio dell'organo e della composizione, parallelamente mi venne il desiderio di approfondire l'apprendimento della musica anche dal punto di vista filologico, così conseguii la specializzazione all'Università di Pavia nel corso di Paleografia Musicale.

ADP: Lei si è specializzato in filologia musicale presso l'Università degli studi di Pavia, è docente di Paleografia musicale presso il Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano. Inoltre ha scritto numerosi saggi musicologici ed edizioni critiche di musica vocale e strumentale. Qual è lo studio e l'approccio che deve avere un interprete in un'esecuzione che possa essere considerata filologica?

GA: L'approccio dev'essere di rigore e di conoscenza. Non si può affrontare la musica di nessun periodo, e non c'entra il fatto che sia molto arretrata nel tempo o più vicina a noi, senza soddisfare queste due condizioni. Dev'esserci sempre un orientamento mirato alla conoscenza delle fonti, a come saperle interpretare, a entrare nel pensiero di coloro che hanno realizzato il lascito musicale che noi desideriamo a nostra volta eseguire. Insomma, ci si trova di fronte a un cammino che dev'essere ispirato a una severa disciplina e possesso degli strumenti filologici.

ADP: Quali emozioni vuole suscitare nell'ascoltatore un'esecuzione filologica rispetto a una che non lo è?

GA: Io penso che l'ascoltatore non debba avere nessuno strumento particolare per comprendere il peso e l'importanza di quello che l'esecutore gli propone. Tuttavia, se questo è attrezzato e conosce molto bene i criteri di prassi esecutiva, l'uditore li percepirà poiché tale prassi non vuol dire soltanto scimmiottare alcuni atteggiamenti presumibili del passato, ma significa entrare nel profondo di quelle che erano le peculiarità del linguaggio musicale nelle epoche passate. Per fare un esempio più circostanziato, eseguire la musica del '600 significa avvicinarsi a quel repertorio che ha nel rapporto parola/suono una simbiosi indissolubile, secondo il dettame monteverdiano della parola signora del percorso esecutivo e la musica sua ombra, sua ancella. L'interprete che è consapevole di questo, trasmetterà a chi ascolta una tale emozione, una tale forza di coinvolgimento che è la medesima richiesta all'oratore nel suo iter retorico, quando deve esprimere la "captatio benevolentiae". Questi cercherà appunto di portare l'ascoltatore dalla sua parte, convincerlo che il suo pensiero, il suo argomentare è l'unico, il vero e l'assoluto. La musica deve battere lo stesso percorso, foriero di un doppio propellente: la parola e il suono, da cui si genera una miscela esplosiva. Di conseguenza, ciò è richiesto dall'esecutore moderno perché la musica di quell'epoca è costruita e pensata dall'autore con questi principi, non con altri casuali. Non lo ricordiamo mai abbastanza, ma il compositore del '500, '600 o '700 faceva un corso di studi in cui, accanto alla conoscenza del contrappunto, della strumentazione e di tutti quelli che erano gli elementi fondamentali della musica, c'era la grammatica, la retorica, la dialettica; anche questi andavano posseduti a fondo. Il latino doveva essere una lingua seconda e non esisteva via di scampo. Ecco perché noi quando ci avviciniamo a questa musica ci rendiamo conto che i testi sono mirabilmente centrati nell'accento, nell'articolazione della parola e non s'intravvede mai alcun barbarismo.

ADP: In qualità di direttore, lei svolge un'intensa attività concertistica e discografica con i "Solisti del Madrigale" e con il "Collegium vocale et instrumentale Nova ars cantandi". Vorrei stimolarla a una riflessione che riguarda la vita vissuta del musicista. Esiste un bilanciamento tra le fatiche che deve sopportare e l'immensa gioia del porgere la musica all'altrui animo?

GA: Non c'è nessuna fatica che possa tenere od oberare. Quando noi ci presentiamo davanti al pubblico possiamo godere di un privilegio che soltanto a pochi è concesso: essere tramite di quel messaggio che ci viene dal compositore del passato. Questa è una grande responsabilità ma nello stesso tempo la più grande gioia. Noi non dobbiamo mai dimenticare un fatto, che diamo talvolta per scontato ma così non è: la musica non esiste nella sua fisicità e plasticità ma, come dicevano i greci, è un'arte di movimento giacché vive soltanto nell'attimo in cui la si fa. Dopo che l'ultima vibrazione ha percorso lo spazio dell'ambiente in cui è avvenuta l'esecuzione, non c'è più musica e rimane un qualcosa d'inerte, quei segni e quei codici sulla carta che non sono la musica, ma solo il suo simulacro. I greci l'avevano capito benissimo nell'epoca classica, dividendo le arti in due categorie, la musica era considerata psicagogica (da "psyche" anima e "agogos" conduttore) muovendo l'anima, mentre la poesia, l'architettura, la scultura erano arti plastiche poiché erano lì. Potevano essere viste materialmente, al contrario della musica che doveva essere necessariamente eseguita per avere vita, tanto è vero che quel popolo, proprio per questo motivo, non aveva un sistema di notazione. Non ne aveva bisogno e per tanti secoli fu così, la musica era "intus et in cute" all'esecutore, non c'era bisogno di scriverla. Come insegna Aristotele, la scrittura è la perdita della consapevolezza di se in quanto "medium" e sarebbe stata un diaframma in più che bisognava evitare. Poi, per ragioni di conservazione, e meno male, non si è arrivati a quest'esclusione, però lei capisce da queste testimonianze quanto forte fosse tale convinzione. Noi non abbiamo quasi nulla della testimonianza greca né di quella romana e non perché non fossero capaci di produrla, ma semplicemente perché non volevano.

ADP: Vorrei approfittare della sua grande esperienza di presidente e membro di giuria nei più importanti concorsi nazionali e internazionali di canto e composizione corale. Com'è cambiato, se è cambiato, l'orientamento tecnico/interpretativo della musica vocale nelle ultime leve di musicisti?

GA: Posso dire di aver iniziato a fare il presidente e membro di giuria nel 1975, ho avuto dunque la fortuna di percorrere un lasso di tempo vicino a quello di un'esistenza umana. Osservo che ci sono stati dei notevoli passi in avanti sul piano della crescita e della maturazione però, limitandomi naturalmente alla mia esperienza corale, sono persuaso che rimangono ancora delle zone d'ombra e questo per una questione molto semplice. Il punto più dolente è proprio quello del quale parlavamo all'inizio della nostra conversazione, cioè la consapevolezza della prassi esecutiva, la conoscenza degli strumenti per affrontare un repertorio lontano nel tempo con gli arnesi adatti. Ci sono molti interpreti che questo percorso non l'hanno fatto e arrivano a esecuzioni vergognose, convinti del fatto che quanto scritto coincida con la musica. Questo però è impossibile. Anche se ci fossero le indicazioni di tutto quello che noi vogliamo, i crescendo, diminuendo, gli staccati e altro quella non sarà mai la musica. Lei prende un notturno di Chopin, lo suona con tutti i segni, ma se non è un grande pianista verrà fuori una schifezza, una cosa che non commuove e non darà nessun messaggio. Ci vuole il demiurgo, ci vuole l'interprete.

ADP: Nell'ormai lontano 1991 è stato invitato dalla Bach-Akademie di Stoccarda a dirigere un concerto di musiche vocali e strumentali di Mozart per il Festival internazionale "Mozart Reisen durch Europa". Quali emozioni le suscita ancora oggi il ricordo di quello che per lei penso sia stato un evento memorabile?

GA: Un evento memorabile per molti fattori. Pensi che in quella stessa sera avvenne l'arresto di Gorbaciov, con tutta una tensione che si avvertiva in Europa (eravamo in Germania, lei può capire). La paura si percepiva in maniera palpabile ma, nonostante ciò, il pubblico gremì questa sala meravigliosa della Bach-Akademie. Noi portavamo una sfida, l'invito di un gruppo italiano diretto da un italiano a eseguire Mozart e Holzbauer, compositori della tradizione viennese e dunque di loro competenza. Tuttavia, grande fu lo stupore del pubblico e della critica per quest'interpretazione completamente nuova, da parte mia edificata sulla base di una lettura mozartiana aderente alle linee dell'esaltazione massima della parola e su una scelta di tempi legata a quelli drammaturgici e non ai metronomici. Ricordo che eseguimmo il mottetto "Benedixisti Domine" dove usai tutto l'apparato della strumentazione dell'epoca, con tromboni, cornetti, violini, ricostruendo un ambiente sonoro salisburghese. Dovemmo bissare quasi mezzo programma, alla fine non ne potevo più, ma è un ricordo che rimane ben stagliato nella mia memoria.

ADP: Maestro, lei porta avanti anche un'infaticabile attività d'insegnante e, per questo, molti saranno i giovani con cui lei ha contatti. Ritiene che oggi sia vivo l'interesse nei ragazzi per uno sterminato repertorio che va dalla polifonia medievale e rinascimentale sino a opere del '900, come, per esempio, i Carmina Burana di Carl Orff.

GA: Se posso dirlo, ho una vena di tristezza, di malinconia perché, a fronte della quantità di allievi che ho formato, venuti anche a dei corsi non soltanto conservatoriali ma estivi o triennali, fatti proprio per colmare certe lacune di programma dei conservatori, se solo il cinquanta per cento di loro avesse messo in atto i profitti dell'insegnamento, noi avremmo una generazione di musicisti che si potrebbero affiancare a noi. Io mi trovo abbastanza isolato, c'è pochissimo in questo panorama poiché tutti tendono al successo immediato, trascurando il fatto che qui c'è un lavoro continuo da portare avanti. Io stesso sono reduce da ricerche fatte due giorni fa, intraprese alla Biblioteca dei Girolamini a Napoli, luogo inaccessibile in cui sono riuscito a entrare per studiare un autore che m'interessa e desidero eseguire al più presto. Sono fatiche enormi, lei può immaginare, perché, al di là di avere gli autografi manoscritti, poi bisogna trascriverli, metterli in condizione di poter essere interpretati in quanto sono scritti non le dico in quale maniera.

ADP: Rimarchevole è pure la sua produzione discografica. A livello di disposizione d'animo da parte dell'esecutore, quale differenza per lei esiste tra un concerto cosiddetto "live" e una registrazione in studio?

GA: La differenza è abissale. Il disco è uno strumento importantissimo in quanto fotografia di un momento che si vuole documentare, per la ragione che la musica non esiste nella sua matericità ma solo nel momento in cui la si esegue. Ha un valore meraviglioso poiché testimonianza non surrogatoria di un concerto, anzi questo è inarrivabile nel suo contatto diretto tra l'interprete e chi ascolta, ha lo scopo di prendere per mano lo spettatore e portarlo dentro la musica che il musicista sta eseguendo. Questo il disco non potrà mai farlo, semmai può essere da stimolo, dopo averlo ascoltato, al desiderio di sentirlo anche in concerto.

ADP: Può parlarci dei suoi futuri progetti, sia concertistici che discografici?

GA: Certo. Partendo da quelli discografici, tra poche settimane uscirà per l'etichetta Deutsche Grammophon, quella con la quale io e il complesso vocale "Nova Ars Cantandi" abbiamo un contratto in esclusiva, un album che contiene un'opera inedita. Come lei avrà visto, il nostro ensemble ha come scopo, come obiettivo primario quello di proporre al pubblico proprio opere inedite, mai eseguite, capolavori assoluti dimenticati. Un altro autore che è sotto la nostra attenzione è Giovanni Legrenzi, che fu un compositore sommo all'epoca nella quale visse ma oggi quasi del tutto dimenticato, come lo è Leonardo Leo, Pasquale Cafaro, Tarquinio Merula e tutti gli altri compositori dei quali ci siamo occupati. Di Legrenzi abbiamo registrato l'integrale dell'Opera Nona, che sono le "Compiete", ultima parte della giornata monastica, lo dice il significato stesso riposto nel termine "completorium", la fine del giorno nella sua compiutezza. I testi quindi sono diversi dal vespro, non sono salmi di gioia, di gaudio o esaltazione del Signore, ma sono di raccoglimento, di timore e anche paura delle tenebre. Nel "Confiteor deo omnipotenti" c'è la contrizione. Queste composizioni a cinque voci con basso continuo contengono dei testi strepitosi, sono pagine che noi non ci stancheremo mai di eseguire. Durante la registrazione ci dicevamo: "ma come, è già finita?". Quando nel gruppo si crea questo "pathos", vuol dire che la musica è straordinaria. Come progetto concertistico, il 21 marzo (data di nascita di J.S. Bach) come ogni anno ci esibiremo a Milano, per l'Accademia di Musica Antica, della quale io sono direttore artistico, nell'ambito della giornata europea della musica. In tutta Europa, chi è affiliato alla Rete Europea della Musica Antica (REMA), ha la possibilità di mettersi in streaming mandando in tutto il mondo il suo concerto, avente luogo in un certo Paese. In Olanda, in Svezia, in Germania, in Polonia, in Romania o altrove, alle 21 tutti noi inizieremo. Quest'anno la composizione da noi prescelta è l'inedito Stabat Mater di Nicola Fago, maestro di Leonardo Leo, insieme al Miserere di Leo, non il famoso a otto voci che tutti conoscono, ma quello che ho trovato dimenticato nel Conservatorio di Milano. L'autografo non è a Napoli ma a Washington e devo ancora capire bene come mai siano arrivati là molti autografi di questo compositore. Probabilmente erano in possesso di qualche nobile che poi li ha venduti. Questo sarà un altro evento straordinario, che penso verrà registrato in disco. Sia il Miserere che lo Stabat Mater sono per quattro voci e strumenti (de violini e basso continuo). In seguito sarà la volta, un ritorno in verità, del nostro amato Giovanni Battista Bassani con il "Davide Armonico", tra i testi più belli e costituito da una serie di salmi, sempre per quattro voci, due violini e basso continuo, una formazione tipica della musica vocale da chiesa della seconda metà del '600.

ADP: Maestro Acciai, mi consenta un'ultima domanda. Nell'ascolto della polifonia medievale io percepisco quasi una "presa diretta" con il più intimo e puro spirito dell'uomo, indipendentemente dalle epoche storiche. Anzi, sento una vera è propria sospensione di queste a vantaggio di una dimensione quasi atemporale. Tali sensazioni mi danno il destro per chiederle cosa consiglia all'ascoltatore novizio che, magari epidermicamente attratto da questa musica, la vorrebbe comprendere più in profondità?

GA: Per la musica medievale, il mio consiglio è di accostarsi al canto piano, al canto gregoriano e di percepirne l'immensa spiritualità che lo anima. Da lì poi passare a quella musica che dal canto gregoriano si genera, vale a dire gli "Organa" dell'epoca di Notre Dame, il mottetto dugentesco. Non si possono non ascoltare i canti dei trovatori e la polifonia di Guillaume de Machaut. La sua Messa di Notre Dame è un monumento, la prima grande messa composta da un unico compositore in quanto prima venivano realizzati dei centoni. Il mio consiglio può proseguire con l'invito ad ascoltare le ballate di Landini, di compiere in definitiva un percorso con serenità, magari tornando anche indietro. il punto di partenza deve però essere il canto piano perché "Lux et Origo" della musica occidentale, il nostro DNA.


Alfredo Di Pietro

Ottobre 2019


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