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Thursday, April 18, 2024 ..:: Intervista al maestro Alexander Lonquich ::..   Login
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 Intervista al maestro Alexander Lonquich Minimize

 

 

Alfredo Di Pietro: Maestro, in una sua recente intervista concessa al periodico "Suonare News", lei ha espresso una frase che mi ha fatto molto pensare: "La classica è viva ma siate audaci". Vorrei stimolarla a un piccolo approfondimento: in cosa deve consistere questa audacia?

Alexander Lonquich: In tanti particolari, per esempio riuscire ad alternare proposte di programmi più tradizionali e convenzionali, adatti agli abbonati delle stagioni concertistiche, con nuovi format. Ci sono tante possibilità in questo senso. Ho partecipato anche recentemente a degli eventi interdisciplinari, addirittura mi è capitato in un festival a Vienna, nel mese di maggio, di trovare abbinati nella stessa serata cabaret, teatro e musica classica e contemporanea di tanti generi, il tutto al servizio di una drammaturgia veramente convincente. Ovviamente c'è inoltre da dare alla musica una maggior importanza nel sistema scolastico, in modo che diventi una materia non secondaria nell'educazione. Dal lato interpretativo, occorre liberarsi da tanti schemi consolidati. Ci sono di grande aiuto le scoperte fatte nel campo filologico negli ultimi sessant’anni, che hanno portato già molti musicisti a una maggiore consapevolezza nel rileggere senza pregiudizi partiture anche arcinote e questo riguarda anche il repertorio ottocentesco. Disponiamo oltretutto di un tesoro di registrazioni che risalgano fino al 1892, a testimonianza di tradizioni tutt'altro che unidirezionali. Per me è importante riappropriarmi di una serie di elementi "linguistici" prima quasi sommersi che rendono un'interpretazione meno standardizzata.

ADP: Sono rimasto incantato dalla sua interpretazione della Sonata N. 21 in si bem magg D960 di Franz Schubert, per la libertà e profondità di sentimenti che esprime. Ascoltandola, ho pensato a un famoso aforisma di Ferruccio Busoni: "Colui per la cui anima non è passata una vita non dominerà mai il linguaggio dell'arte". Ritiene questa sonata uno dei punti d'arrivo definitivi nel percorso artistico di un interprete?

AL: Senz'altro, almeno per un interprete che ama Schubert. Per me quest'opera è paradigmatica, a tal punto da aver proposto una serie di conferenze nelle quali ho cercato di illuminarne alcune caratteristiche, a partire dalla struttura intervallare: gli intervalli di poca estensione hanno la prevalenza, facendo da filo conduttore in un vero e proprio labirinto armonico, capace di offuscare la precisione nel percepire con esattezza la successione delle varie tonalità, che alla fine dello sviluppo del primo tempo si sono presentate quasi al completo. Contemporaneamente vige una notevole ossessività ritmica che nel secondo tempo si fa staticità agghiacciante. Sempre nel primo tempo invece proseguono lunghe successioni di crome, sedicesimi e terzine, solo dopo appare un momento "liberato" dalle costrizioni dell'andamento costante, alternando una dolcezza arrendevole a degli scatti d'ira attorniati da minacciosi silenzi. Un silenzio prolungato segue già nella nona battuta l'apparizione piuttosto minacciosa di un corpo estraneo, un trillo nei bassi, suonato pianissimo, quasi un rumore sordo. Prima del ritornello assistiamo al suo violento esplodere, prima della ripresa, come da lontano non si sente altro che lui, mozzafiato. Alla fine sarà come reintegrato nel discorso, metaforicamente senza l'accettazione dell'elemento perturbante non si può vivere.

ADP: Si può coniugare rigorosa analisi e libertà poetica nell'esecuzione di un'opera?

AL: Credo che più si è capaci di analizzare un'opera più prospettive di libertà si aprono nel suonarla. Faccio l'esempio della musica di Schumann, specialmente nella sua prima produzione pianistica, dove, cercando di seguire con rigore tutte le sue contraddittorie indicazioni, si aprono spazi molto vasti per l’appropriazione poetica. Aggiungendo l'ascolto di grandi interpreti, anche di un passato più lontano, che magari ci trasmettono elementi e stilemi da noi non ancora considerati, le possibilità di scelta si fanno sempre più vaste. Insomma, premessa la propria empatia con un autore, più informazioni si hanno, più liberi si è.

ADP: Emerge nel suo pianismo vivacità e mobilità di fraseggio insieme a una "sehnsucht" tutta particolare, nobile e fiera. Nei 6 Klavierstücke Op. 118 di Johannes Brahms, per esempio, tali virtù risaltano con chiarezza. In questo approccio, quanto c'è del suo carattere personale?

AL: Mi pare naturale scegliere prevalentemente delle opere che si sentono affini. Qualcosa di personale riecheggia in tutto quello che stiamo eseguendo. Nel caso di Brahms sono affascinato dall'indissolubile unione tra una struttura di ferro, difficile da cogliere al primo ascolto, e il sorgivo manifestarsi di un'immensa malinconia dalle assonanze autunnali. E’ difficile non rimanerne colpiti da vicino.

ADP: Com'è cambiata, se è cambiata, la sua idea dell'interpretazione nel tempo, dalla gioventù sino a oggi?

AL: Per fortuna è sempre in trasformazione. Sono cresciuto con un'idea certamente più classicista di tanto repertorio, poi man mano per me hanno avuto sempre più importanza i lati "irregolari" della grande musica. Noto con piacere, vedendo anche in generale la sostituzione di desueti paradigmi estetici, di non essere il solo ad andare in questa direzione.

ADP: Ho l'impressione che si stia diffondendo tra le generazioni più giovani un modo di suonare un po' impersonale, che privilegia la perfezione tecnica più che le doti interiori. È d’accordo o smentisce questa mia congettura?

AL: Si, anche se esistono molti esempi positivi che dimostrerebbero il contrario. Però, come tendenza, forse un po' è vero. Ho l’impressione che nell'ultimissima generazione spesso non ci si relaziona molto con la storia, anche quella dell'interpretazione. Frequentemente gli studenti idealizzano alcuni pianisti dai quali rimangono incantati, magari ancora piuttosto giovani, conoscendo veramente poco il mondo che li ha preceduti. E così c'è sì il rischio di uniformarsi. Si tratterebbe invece secondo me della necessità di muoversi con agio tra i fantasmi del passato.

ADP: Cosa pensa del Recital Pianistico, è una forma ancora attuale o va rinnovata?

AL: Qui mi riallaccio alla prima domanda. Ritengo che possa essere radicalmente rinnovato in certe situazioni. Mi è accaduto di farlo in parte, ideando dei programmi che contenevano pezzi molto distanti l'uno dall'altro, uniti solamente da legami associativi e non storici o tematici. Volendo, si possono generalmente proporre dei programmi più inusitati. Il repertorio pianistico è quasi infinito, autori come i figli di Bach, Haydn, le opere meno conosciute di compositori famosi, come anche tante figure "minori" dell’otto e del primo novecento condividono ancora il destino della bella addormentata, aspettando chi li sveglia attraverso la prassi concertistica. In più abbiamo a disposizione le sfaccettature molteplici della musica contemporanea. Sperando che il pubblico ci segua in nuovi percorsi, da alcuni di noi incoraggiati. Molti organizzatori, avendo paura di fallire, propendono invece per delle messe in cartellone iper-consolidate. Assistendo in tanti luoghi alla diminuzione numerica dei Recital, non so se generalmente c'è da essere ottimisti riguardo il futuro di quella particolare forma "teatrale".

ADP: Mi piacerebbe parlare con lei dell'argomento insegnamento, ponendole due domande: quanta parte del suo tempo dedica a questo? Si verifica un interscambio tra l'insegnare e l'interpretare, nel senso che le due realtà s'influenzano reciprocamente?

AL: Nella mia vita ho insegnato molto, specialmente negli anni '90 in varie scuole, per esempio a Saluzzo, Imola, Fiesole e alla Hochschule für Musik di Colonia, continuando poi più sporadicamente con delle master class, fino a qualche anno fa anche a Siena. Inizialmente era di grande arricchimento anche per me, analizzando le opere da suonare. Sentivo poi fortemente il bisogno di staccarmi da quest'attività, per raccogliere meglio le idee, essendo anche un po' stanco di fungere da figura autorevole (nel gergo psicoanalitico usato da Lacan si direbbe: incarnare il discorso del padrone). Anche se recentemente a Imola e a Milano ho svolto comunque dei corsi dedicati ad alcuni concerti di Mozart, presente l'orchestra. Ciò ha permesso agli studenti di fare l'esperienza di condurre un gruppo. Un lavoro collettivo molto utile. Con mia moglie Cristina Barbuti che, oltre ad essere pianista, è anche counselor in Psicologia della Gestalt, abbiamo inoltre individuato dei format adatti secondo noi sia a musicisti che a chi semplicemente si interessa alla materia, per approfondire cosa possa significare lo stare in scena, condizione che condividiamo con il mestiere dell’attore. A partire da Stanislavskij il mondo del teatro ha molto più di quello musicale indagato le potenzialità espressive inerenti alla comunicazione umana. Abbiamo per questo ed altro creato anche uno spazio "pubblico" in casa nostra a Firenze, chiamato Kantoratelier.

ADP: In un'illuminante intervista lei ha rimarcato l'affinità tra arte teatrale e musicale. Nel caso del concerto per pianoforte e orchestra, crede che questo connubio possa essere rafforzato se a dirigere l'orchestra è lo stesso pianista?

AL: Dietro l'assenza di un direttore c'è un intento ben preciso. Eseguendo spesso i concerti di Mozart e Beethoven mi sono reso presto conto che un rapporto "orizzontale" con i musicisti dell'orchestra porta a dei frutti ben più maturi che non la presenza di una guida esterna. Una premessa indispensabile però è la bravura quasi solistica e l'ascolto attivo di chiunque faccia parte di quest'esperienza. Del resto nel settecento non esisteva ancora la figura del direttore conosciuta oggi. Il solista, suonando anche il basso continuo, si divideva il compito di guidare il gruppo insieme alla spalla. L'agire di tutti assomigliava di più a dei procedimenti che conosciamo nella musica da camera. Anche alcuni direttori eccezionali, rappresentando delle generazioni precedenti alla mia (penso per esempio Sándor Végh e a Claudio Abbado) hanno contribuito a creare delle compagini orchestrali così flessibili da permettere di essere in grado di partecipare a questo tipo di approccio.

ADP: Un'ultima domanda maestro: può parlarci dei suoi futuri impegni da concertista e operatore culturale?

AL: Ho cercato nella mia vita di tenere sempre aperti una serie di discorsi e continuo a farlo. Mi divido tra l'attività di pianista e quella direttoriale, tra l'altro sono direttore principale dell'Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza, una formazione giovanile. In più c’è la musica da camera, suono in questo momento prevalentemente con la violinista Carolin Widmann, il violoncellista Nicolas Altstaedt e in duo pianistico con mia moglie. Oltre questo ci sono delle esperienze con dei gruppi più estesi, tipo quartetti e quintetti come anche alcuni incontri con il mio figlio Tommaso, clarinettista. Delle mie attività da operatore culturale le ho già accennato. Sono particolarmente interessato all’approfondimento di incontri interdisciplinari, per esempio tra musica, teatro e psicoanalisi.

Alfredo Di Pietro

Settembre 2017


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