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 Franz Joseph Haydn Concertos - Maurizio Baglini • Silvia Chiesa • Guido Rimonda. Camerata Ducale Riduci


 

 

Franz Joseph Haydn (1732 - 1809)

 

Harpsicord Concerto in D Major Hoboken XVIII:11

1) Vivace

2) Un poco adagio

3) Rondò all'ungherese. Allegro assai

 

Cello Concerto in C major Hoboken VIIb:1

1) Moderato

2) Adagio

3) Finale (Allegro molto)

 

Violin Concerto in G Hoboken VIIa N. 4

1) Allegro moderato

2) Adagio

3) Allegro

 

Maurizio Baglini, pianoforte

Silvia Chiesa, violoncello

Guido Rimonda, violino

 

Orchestra Camerata Ducale

 

Ci sono recensioni che devono andare al di là della "mera" analisi musicale e dell'interpretazione. Ci sono critiche che non possono non andare oltre la critica. È il caso di questo CD "Franz Joseph Haydn Concertos - Maurizio Baglini • Silvia Chiesa • Guido Rimonda. Camerata Ducale", registrato dal vivo il 27 agosto 2015 al Forum Fondazione Bertarelli di Poggi del Sasso. Beninteso, possiamo godercelo così com'è, disinteressandoci dei suoi moventi editoriali, la musica che racchiude tra i suoi "pit" e "land" è già di per sé motivo di piena soddisfazione per l'ascoltatore. Tale è l'armonia, la piacevolezza di queste composizioni che chiunque ne rimarrebbe innamorato a prima vista. Una gradevolezza che però non deve far dimenticare quanto grande debba essere l'abnegazione dell'interprete nell'affrontare queste pagine. Sull'orizzonte esecutivo Haydn è forse più impegnativo di Mozart, per esempio, richiede una maggior attitudine allo scatto atletico delle dita con le sue sorprese, le sue imprevedibili piroette, non solo nei tempi veloci, ma anche nelle ineffabili fioriture dei lenti. Ricreare il senso di una perenne mobilità è essenziale in Haydn. Per chi invece sta dall'altra parte, seduto in una sala da concerto, a differenza di altri autori questo è uno di quelli che ispira immediata confidenza, da subito. Calamita l'attenzione come in un forbito botta e risposta nel corso di una conversazione. Io credo molto nelle copertine, ciò che per prima raggiunge i nostri sensi non è la musica ma proprio l'immagine che vediamo, a CD ancora impacchettato.

E qui non troviamo un ritratto dell'autore o una foto degli interpreti, nemmeno viste settecentesche che richiamano l'epoca di composizione di questi tre capolavori, ma l'interno del Forum Fondazione Bertarelli in tutto il suo splendore. Facile a questo punto risalire al tributo che, con questa release discografica, si è voluto offrire all'Amiata Piano Festival, giunto quest'anno alla tredicesima edizione. Sono stati anni vissuti intensamente, di grandi successi, in una costante evoluzione che ha portato il festival a essere oggi una delle più importanti manifestazioni musicali del nostro paese (e non solo). Il pianoforte, strumento plenipotente, ha fatto da trampolino di lancio per altri generi e insiemi strumentali. È giusto allora lasciare una testimonianza che non sia solo scritta negli annali della storia ma, visto che di musica si tratta, anche un documento sonoro emblematico del clima effervescente che ogni anno si crea intorno a questa straordinaria manifestazione. Franz Joseph Haydn, con la sua febbricitante vitalità, esprime idealmente quel tessuto connettivo in cui coesistono il fervore dei preparativi, l'attesa per l'evento, anche la tensione per l'esito di un qualcosa nato per dare massima soddisfazione ai palati più raffinati. Un'istantanea dell'attività corale di quelle tante persone che, a vario titolo, contribuiscono al suo successo, un capillare fermento che trova finalmente risoluzione nell'allegria liberatoria della grande festa. L'esibizione musicale, come terminale di un intenso lavoro a monte, ripaga all'istante tutti gli sforzi compiuti.

Di quest'eterogeneo entourage si fa coacervo il primo CD "live" dell'Amiata Piano Festival, sensore di variegate emozioni, tutte umanissime, individuabili in una musica che più rappresentativa di questa non potrebbe essere, composta da un autore che Mozart così descrisse: "Nessuno quanto lui sa far ridere, piangere, divertire, commuovere". Affiora allora con maggior precisione il "pool" di fattori stimolanti alla base di questo album, un insieme di felici convergenze, a cominciare, se vogliamo, dalla novità di cui si fa portatore, ossia l'inizio (si spera di una lunga serie) di registrazioni "live" dedicate alla kermesse concertistica toscana. Confortevole è l'idea di non lasciar dissolvere, anzi rinnovare, il "retrogusto" che rimane nell'ascoltatore dopo essere stato attraversato da questo fiume di musica, un veicolo per stratificare nella memoria l'eco di un evento davvero unico nel panorama italiano. E se un giorno ci prende la nostalgia per quelle distese di vigneti a perdita d'occhio, per la dolcissima aria maremmana, per l'incanto di una natura incontaminata, ma soprattutto per quei memorabili concerti, non dobbiamo fare altro che inserire il dischetto argentato nel nostro lettore e chiudere gli occhi. Ma il mosaico non può essere completo senza una fondamentale tessera, messaggera di un concetto che questo "live" vuole dichiaratamente evidenziare, vale a dire quell'illuminato mecenatismo che accomuna le vicende dell'Amiata Piano Festival con il contesto artistico/culturale in cui Haydn si muoveva.

Il ruolo che per il compositore ebbe la nobile famiglia ungherese degli Esterházy, nella figura del principe Nicola I Giuseppe Esterházy di Galánta, oggi viene ricoperto dalla Fondazione Bertarelli per il festival, guidata da Maria Iris Bertarelli, Claudio Tipa e Maria Tipa. Un binomio che, oggi come allora, diventa mattone fondante di quella città ideale che le istituzioni non hanno saputo o voluto edificare. Ossigeno puro è il mecenatismo, inteso come prezioso sostegno alle attività artistiche e culturali, un lievito che coinvolge direttamente gli stessi musicisti, che così possono esprimersi al meglio, a beneficio di tutti. Un connubio che, in buona sostanza, si è trasformato quasi in simbiosi quello dell'Amiata Piano Festival con la Fondazione Bertarelli, vero "humus" dal quale attinge le risorse per dare segno della sua straripante vitalità. Un CD che si fa momentaneo terminale di una bellissima favola moderna. Se vogliamo ripercorrere velocemente le tappe di quest'avventura, dobbiamo risalire al 2003, anno in cui l'ingegner Paolo Fazioli chiese a Maurizio Baglini di organizzare un concerto bi-pianistico in compagnia di Fabio Bidini. Questo ebbe luogo nell'alta Maremma, ma il progetto dell'APF prese ufficialmente vita due anni più tardi, nel 2005, in un garage di Castel del Piano. La prima edizione ebbe un taglio decisamente "domestico", realizzata quasi informalmente grazie all'apporto in via di favore di amici, in seguito però avvenne un incontro che ne cambiò radicalmente le sorti. Maurizio Baglini conobbe Claudio Tipa, grande appassionato di musica e zio di Ernesto Bertarelli, noto imprenditore italiano naturalizzato svizzero dalle grandi capacità finanziarie.

Dal garage di Castel del Piano si passò così a una grande cantina della tenuta vinicola Colle Massari, posta nel verde della Maremma grossetana, in un territorio appartenente alla famiglia Bertarelli. Non era però ancora l'ambiente ideale per ospitare il festival, troppo elevato il grado di umidità per il legno degli strumenti. Durante una riunione Silvia Chiesa, artista residente dell'Amiata Piano Festival e compagna di Maurizio Baglini, ipotizzò il trasferimento in un Auditorium, Claudio Tipa rispose lapidario: "lo avrete". In pochi mesi fu messo in piedi il cantiere, ne passarono appena diciotto per il suo completamento. Quest'anno, per la terza volta il festival si svolgerà nella splendida cornice del Forum Fondazione Bertarelli, davvero un perla di architettura che s'inserisce nella natura in modo assolutamente non invasivo. La mia schematizzazione storica è brutale, lo so. I passi compiuti sono stati tanti e non basterebbe un articolo dedicato per essere esaustivi. A chi vuole immergersi nell'incanto di questo piccolo angolo di paradiso, basti sapere che verrà accolto all'interno dell'ampia sala da concerto, concepita dallo studio Edoardo Milesi & Archos. Il Forum Fondazione Bertarelli è posto in cima a una collina a Poggi del Sasso, nel territorio del Cinigiano, in provincia di Grosseto, nelle immediate vicinanze della precedente sede del festival. Ha una capienza di trecento posti e un palcoscenico abbastanza grande da ospitare una compagine sinfonica. Dotata di una forma organica, generata da proporzioni auree adatte alle sonorità interne, non contiene alcuna rigidità, per un'integrazione con il paesaggio circostante totale e armoniosa.

Nessuno spigolo, riflesso o quinta turbano le sue forme ispirate totalmente alla natura, anche dei suoni. Assente ogni brusca interruzione che possa disturbare il suo equilibrio. La muratura esterna è fatta per valorizzare una naturale luce cangiante, diversa nelle varie ore della giornata. La forma esterna è generata dalla interna, dal suono che deve circolare e nel quale gli spettatori sono immersi assieme all'orchestra. La struttura è impreziosita da una lastra metallica curva a fianco del teatro, sul lato al tramonto, che accompagna gradatamente all'interno favorendo il trascolorare della natura esterna verso la musica che c'è all'interno, in un passaggio che dev'essere il più indolore possibile tra il paesaggio collinare e l'architettura interna del Forum: dalla vista, dai profumi della terra, si passa alle gioie dell'udito. I materiali utilizzati per la costruzione sono un calcestruzzo scabro color terra arata, acciaio Cor-Ten ossidato naturalmente, vetro. Ottimo e abbondante il menù di questo CD, che offre la degustazione di un "tris" tutto haydniano, dove dei solisti d'eccezione s'impegnano a esplorare un complesso archetipo sonoro, quello di un genio forse non ancora completamente riconosciuto nella sua grandezza. Per un curioso destino, è avvenuto che la splendida materia sonora, l'inesauribile inventiva e le novità armoniche profuse a piene mani dal compositore austriaco siano forse passate in secondo piano, "oscurate" dall'intento squisitamente intrattenitorio.

Franz Joseph Haydn fu uomo gioviale, gaudente, dall'immediata comunicativa, sempre pronto alla battuta e alla "sorpresa", elemento costantemente presente nelle sue composizioni. Il termine di "intrattenimento" nel sentire comune viene spesso equiparato a "divertimento", un'attività che in fondo ha molti punti in comune con l'effimero, un qualcosa di lontano dall'aggrondato contegno con cui identifichiamo la musica classica. Da un lato c'è uno spettacolo e dall'altro uno spettatore, il primo è un contenitore il cui contenuto può essere il più vario ed eventuale, non esclusi i sentimenti più sublimi di cui è capace un essere umano. In Haydn, ciò che appare come semplice intrattenimento può in realtà accendere emozioni e pensieri, farsi specchio del suo animo, suscitare elevate emozioni e stimolare la crescita intellettuale in chi ascolta. Eugène Ionesco ha detto: "Dove non c'è umorismo non c'è umanità", e ancora "Se è assolutamente necessario che l'arte o il teatro servano a qualche cosa, dirò che dovrebbero servire a insegnare alla gente che ci sono attività che non servono a niente, e che è indispensabile che ce ne siano". Nella copiosa produzione di Haydn, per diverso tempo i concerti per strumento e orchestra non hanno occupato un posto di particolare rilievo, certamente sono stati meno considerati delle sinfonie o dei quartetti. Cionondimeno, nei concerti per fortepiano o clavicembalo (che si pongono in un periodo di grande evoluzione tecnica della tastiera), violoncello e violino, riconosciamo in pieno quell'alta poetica costantemente presente nelle sue opere.

Un accattivante smalto sonoro caratterizza il Concerto in re maggiore Hoboken XVIII:11, articolato in tre movimenti, tra i circa dodici per tastiera che Haydn compose probabilmente il più popolare. Nell'iniziale "Vivace" lo strumento solista entra dopo l'esposizione orchestrale del tema, punto di partenza per un fitto colloquio tra lui e gli altri strumenti. L'elaborazione del materiale tematico di partenza sottostà all'egida di una grande freschezza melodica, gli intrecci strumentali sono di frequente sospesi per lasciar posto a episodi virtuosistici atti a far emergere la bravura dell'interprete. Non sembra approfittarsene troppo Maurizio Baglini, con la sua tecnica "di dito" fuori dal comune è teso piuttosto a dare una lettura coerente e scorrevole, prestantemente "atletica" della partitura. Garantisce un ascolto "radiografante", dove ogni nota può essere percepita distintamente, anche in una successione veloce; non si deve compiere alcuno sforzo per inseguire con l'orecchio le note. In ogni momento è conservata un’articolazione esemplarmente chiara, e con questa l'intelligibilità di una fitta trama musicale che a tratti rasenta il frenetico. Tutto appare perfettamente sotto controllo, il bilanciamento delle sonorità si avvantaggia di una certosina capacità di modulazione dinamica, efficace anche nei passaggi più veloci. Primo e terzo movimento scivolano via con un brio fantastico, ma il "Rondò all'ungherese. Allegro assai" sembra avere più pepe, più fuoco nelle sue vene, nella serrata lettura di Baglini diventa realmente travolgente.

Ungherese, in ossequio alla tendenza del tempo d'interessarsi alla musica dei gitani d'Ungheria e dei paesi balcanici. Nel Burgenland in particolare, la regione di confine in cui si trovava Eszterhàza, il più grande edificio rococò dell'Ungheria, fatto costruire dal principe Nikolaus Esterházy. La cellula tematica che costituisce il "refrain" di questo rondò è una danza rustica, Siri Kolo, praticata in Bosnia e Dalmazia. Diventa la base per fulminee quanto estemporanee digressioni, l'uso intenso di abbellimenti come il trillo e l'acciaccatura dà mordente, si rivela una sorta di esaltatore di sapidità dando al brano un sapore quasi luciferino. Il centrale "Un poco adagio" è un'oasi di meditazione che si differenzia nettamente dal carattere brillante del "Vivace" e del "Rondò all'ungherese". La mente di Haydn traccia il sentiero di una serie d'incantevoli riflessioni in musica, fiorite del tutto spontaneamente dal tema principale. Nel genuino alveo della registrazione "live", emerge il notevole bilanciamento tra le due esigenze espressive messe in campo dal pianista pisano: da un lato c'è lo scattante ginnasta, sempre pronto al virtuosistico volteggio, dall'altro il poeta che desidera raccontare in maniera struggente i più intimi moti dell'animo. Maurizio Baglini, dotato di un arsenale tecnico particolarmente completo, è in grado di vivificare con autorevolezza ogni partitura, sia che contenga un ipervirtuosismo alla Liszt, l'estro capriccioso e l'instabilità umorale di Schumann (ma anche la sua estrema eleganza), la microchirurgicità scarlattiana, sia l'incantevole poesia di Chopin.

Un'umanità ubertosa e palpitante sgorga dal Giovanni Grancino di Silvia Chiesa nel Concerto in Do Maggiore Hoboken VIIb:1. Il violoncello... "di lui ci parlo perché tra tutti gli strumenti è quello che produce il suono più simile alla voce umana: può essere tutto, dal basso al soprano; ed è grande, lo posso abbracciare: un vero compagno" ha detto la violoncellista olandese Quirine Viersen. Come non crederle se un compositore ad "ampio spettro" come F.J. Haydn gli ha affidato l'espressione dei suoi sentimenti più lirici. La violoncellista milanese e l'Orchestra Camerata Ducale ci presentano un autentico capolavoro, misconosciuto sino al 1961, sino a quando il musicologo ceco Oldrich Pulkert ne rinvenne la copia manoscritta al Museo Nazionale di Praga. In ossequio al ritrovamento, la "premiere" ebbe luogo proprio nella capitale il 19 maggio 1962, solista Milos Sádlo. Composto dei canonici tre movimenti di Moderato, Adagio e Finale (Allegro molto), esordisce con uno scandito ritmo di marcia, baldanzoso e tenero insieme, che Silvia Chiesa espone con grande equilibrio e intelligenza. Il suo strumento ha davvero un'inaudita ricchezza armonica, ogni volta che lo si ascolta si riceve un gradevolissimo "choc", tanto le vibrazioni hanno la capacità di viaggiare ben oltre i suoi limiti fisici. Mi chiedo cosa avverrebbe se l'orchestra, all'improvviso, smettesse di suonare e se davvero l'ascoltatore sentirebbe un vuoto. È un quesito cui non avrò mai risposta, ma sono persuaso che il solo violoncello basterebbe a riempire l'aere di musica, senza rompere in alcun modo il sortilegio sonoro.

Nell'ambito di un andamento quasi marziale, spiccano gli episodi solistici, in contrasto con la fierezza annunciata si presentano con un eminente carattere lirico. Qui c'è tutto un mondo da raccontare, fatto non solo di cantabilità. Spesso le diverse istanze espressive coesistono nello stesso frangente, come nel bellissimo "Adagio" in forma di romanza, dove sono i soli archi ad accompagnare con grande levità il solista. La melodia ha in se, costituzionalmente, un carattere solenne ma anche confidenziale, in nessun momento Haydn si trincera dietro un arrogante distacco. È questo uno dei suoi tratti più amabili, mettersi sempre in gioco in prima persona, scoprire la propria anima rende questa musica semplicemente adorabile. E nessuno schermo è interposto tra l'arte di Silvia Chiesa e il pubblico, lei generosamente assomma e trasfigura nella sua visione tutta la possibile varietà dell'animo umano: liricità, malinconia, pensosità, divertimento, brillantezza e anche lo sberleffo vivono sotto il comune denominatore di un'umanità a 360 gradi, che non conosci limiti né confini. La struttura dell'"Finale (Allegro molto)" che conclude la composizione è simile, per grandi linee, a quella del primo movimento. Come in questo, l'esecutore è obbligato a passaggi di grande disinvoltura tecnica; c'è una forma di virtuosismo, eminentemente haydniano, che impone fraseggi fulminei, passaggi straordinariamente densi di note che si presentano repentinamente, dove un portamento anche minimamente rigido nuocerebbe, facendo svanire tutto l'appeal di questa musica.

Silvia Chiesa mostra una morbidezza tutta femminile, il suo violoncello è vitale, arguto ma, se vuole, può diventare anche graffiante. Con la sicurezza data dal suo infallibile istinto musicale, sa sempre trovare il modo giusto per raccontare al meglio cosa si agita nelle note. Questo CD si conclude con il Concerto per violino in sol maggiore Hoboken VIIa N. 4. C'è uno stretto rapporto tra il violinista Guido Rimonda e l'Orchestra Camerata Ducale. Nel 1992 il violinista saluzzese la costituisce e sei anni più tardi, nel 1998, in collaborazione con la città di Vercelli, fonda il Viotti Festival. Rimonda suona un pregevolissimo Stradivari del 1721 "Jean Marie Leclair" (Le Noir), strumento che con emozione ho potuto vedere a Desio il 4 dicembre dell'anno scorso nel corso di un evento organizzato dal Circolo Culturale Pro Desio. La Camerata Ducale è quella stupenda compagine orchestrale che ha suonato in tutti i concerti presenti nel disco, l'ensemble che ha meravigliosamente "accompagnato" prima Maurizio Baglini, poi Silvia Chiesa e ora il suo fondatore Guido Rimonda nell'Hoboken VIIa N. 4. Anche in questo si rifà viva quella densa dialettica strumentale che sta alla base delle altre composizioni. Si assiste ancora una volta nei tre movimenti a quel gioco astutissimo tra elementi melodici, ritmici e armonici che si sviluppano in un fitto procedimento dialettico. Il violinista si dimostra grande nell'assecondare la freschezza dell'invenzione musicale nell'impianto formale dei tre movimenti.

Visto che sono in vena di citazioni, ve ne regalo un'ultima, di Frank Zappa, autore moderno che, apparentemente, ha poco o nulla a che spartire con Haydn. Diceva a proposito della sua professione: "Vendo aria compressa". Non si può negare che dal punto di vista fisico questa definizione sia esatta (il suono è prodotto da una serie alternata di compressioni e rarefazioni dell'aria), il bello però della questione è come si sia potuta sviluppare da quest'evidenza di fisica acustica un'arte in grado di coinvolgere totalmente ogni aspetto dell'uomo.


Alfredo Di Pietro

Giugno 2017


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