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 PianoSofia Festival di Musica e di Pensiero - Dynamis e dinamica - Jean-Marc Luisada minimieren


 

 

Condizioni climatiche a parte, non poteva iniziare meglio la rassegna PianoSofia. In una Milano dal clima tempestoso, vento e pioggia battente, il 2 ottobre U.S. è stato inaugurato questo nuovo Festival di Musica e di Pensiero che prevede un arco di sei concerti, introdotti da altrettante conversazioni filosofiche tenute da scrittori, filosofi e psicanalisti. Alla sua base c'è un'intuizione ispirata dalla realtà odierna, che questo festival vuole strenuamente combattere, cioè la constatazione di una società sempre più tesa all'isolamento in una solipsistica dimensione tecnologica, estesa a tutte le attività umane, compresa quindi la fruizione della musica e delle informazioni. Va da sé che tali desiderata dovevano essere confortate da credenziali adeguate, come per esempio la location, molto piacevole e "in", assegnata allo svolgimento di tutti gli incontri. Parliamo della Casa degli Artisti, edificio storico sito in Via Tommaso da Cazzaniga 89/A, zona Brera, progettato come atelier d'arte e oggi, dopo decenni di abbandono, completamente ristrutturato e adibito a centro di residenza, produzione e godimento aperto alla città, a vocazione interdisciplinare. Si estende su una superficie di 1250 mq, articolata su tre piani e comprensiva di ben undici atelier destinati al lavoro degli artisti, uno spazio espositivo al pianterreno aperto al pubblico, un bistrot e uno spazio esterno affacciato sul verde. Riconosciuta come uno dei simboli della Milano culturale, la sua storia inizia nel 1909 per merito dei Fratelli Bogani, i lungimiranti mecenati che in questo grande immobile ospitavano studi e atelier.



Alla fine degli anni '30 del secolo scorso venne espropriata dal Comune con l'intento di demolirla per avviare un ampio progetto di rinnovamento urbanistico della zona. Poi ci fu la seconda guerra mondiale a mettersi di mezzo e tutto cadde nel dimenticatoio. Gli anni che seguirono furono segnati da un'alternanza di decadenza e occupazioni abusive, dove tuttavia si registrarono degli episodi felici, come quello avvenuto alla fine degli anni '70, quando un gruppo di volenterosi artisti s'impegnarono a elevare le sorti della cultura cittadina. Risale al 2015 l'inizio del percorso di riqualificazione del glorioso edificio, avviato dal Municipio 1. Oggi, a distanza di cinque anni dalla resurrezione prende il via questo stimolante festival, nato su iniziativa dei pianisti Luca Ciammarughi e Silvia Lomazzi, i quali hanno deciso di affrancare la musica dall'idea di mero intrattenimento, come malauguratamente ancora avviene, mettendola in connessione con la filosofia. Il titolo dell'evento di questa sera è "Dynamis e dinamica"; senza entrare per ora nel suo merito, mi preme dire che, nell'abbinamento tra parte filosofica e musicale, scelta più felice non poteva essere fatta. Ma la domanda è: sarà possibile mettere d'accordo musica e filosofia? È su questo teorema che si fonda il Festival milanese PianoSofia. Viviamo in un'epoca in cui si cerca il nuovo, talvolta spasmodicamente, considerandolo come elemento essenziale per dare nuova linfa vitale a una musica ritenuta "vecchia", magari per definizione e non per intima convinzione.



Ci si mette allora alla ricerca di un propellente che è in realtà al di fuori di essa, sfruttato come traino estraneo, e non intraneo, ritenuto utile a suscitare il desiderio di un contatto ravvicinato. In tal senso, vi sono operazioni che rischiano di essere epidermiche, se non puramente esornative, d'immagine o poco più per creare un clima di curiosità verso la musica. Ve ne sono altre che invece tentano la strada opposta, certamente la più difficile, sforzandosi di mettere nelle mani di chi a quest'arte è sensibile quegli strumenti culturali che possano favorire una conoscenza più profonda dei suoi principi generatori, del suo linguaggio, in buona sostanza dei suoi più autentici costituenti. Per questo, sono profondamente convinto che la strada battuta da Luca Ciammarughi e Silvia Lomazzi sia quella più idonea per traforare la superficie e riscoprire il nesso tra il pensiero e la musica, un'arte che non può fare a meno della sensorialità, della spontaneità percettiva, ma che dev'essere anche accompagnata da determinate consapevolezze. E tocca proprio a Silvia Lomazzi rompere il ghiaccio di questa serata inaugurale, che il pubblico tutto preavverte come densa di significati: "Siamo molto contenti di essere riusciti a mettere in piedi la nostra iniziativa. Nei mesi di clausura abbiamo pensato di arredare questa bellissima casa con parole e musica. Siamo in una fase molto delicata, problematica, tutti reduci da un isolamento che ci ha messi in uno stato d'immobilità fisica e mentale. La nostra è un'epoca contagiata dai mezzi di distrazione di massa, oggi proponiamo una cura che può solo essere un movimento fisico e mentale".



È proprio quanto esprime il titolo della serata inaugurale del Festival PianoSofia: "Dynamis e dinamica: Jean-Marc Luisada", il quale incarna la nozione di "dynamis", che è il concetto aristotelico di movimento, e dinamica, che invece è la gestione dell'intensità sonora suscitata dall'energia cinetica del musicista. Due idee che calzano a pennello non solo con le grandi potenzialità di uno strumento come il Bösendorfer Gran Coda 280 Vienna Concert, ma anche con il pianismo plastico e vigoroso di J.M. Luisada. La dinamica, infatti, appartiene alla fisicità del pianoforte, la dynamis a Sofia, intesa come sapienza, saggezza. Due entità la cui efficacia va di pari passo, sinergicamente, affinché venga sprigionata quella forza corporea e mentale orientata verso l'espressività. In questa dichiarazione d'intenti c'è il "core" della serata. Dice Silvia Lomazzi: "Con il passaggio dallo strumento elettronico a quello meccanico ci si vuole muovere dall'artificiale all'autentico, uscire dalla realtà virtuale per entrare in quella virtuosa, fuggire dal digitale e rifugiarci nel digitato. Anziché subire l'intelligenza artificiale, vogliamo fruire di quella artistica, per poter pianosoficamente rimetterci in moto in un percorso umano nel quale la tecnica è più piccola di noi e riusciamo a dominarla".




DYNAMIS E DINAMICA
LA DISSERTAZIONE DI CLAUDIA BARACCHI



Con Claudia Baracchi, professore di Filosofia Morale all'Università di Milano-Bicocca e docente, oltre che presidente, alla Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche "Philo" di Milano, non meno importanza è stata riservata alla parte filosofica. Per chi volesse conoscere meglio questa studiosa, ci sono innumerevoli pubblicazioni tra le quali pescare, tra cui "L'architettura dell'umano. Aristotele e l'etica come filosofia prima" del 2014, "Amicizia" del 2016 e il recentissimo (2020) "Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche". Porge il suo ringraziamento a Luca Ciammarughi e Silvia Lomazzi, coinvolti in qualità d'ideatori e organizzatori del festival, a loro il merito di aver concepito un evento in questo spazio e in questo tempo d'ideale rinascita primaverile, anche se ormai siamo nel cuore dell'autunno e la serata milanese si è presentata alquanto burrascosa. Un periodo non semplicemente inteso come quello che si apre con l'equinozio di settembre, che di per sé è dolce, ma una stagione di chiusura di un tempo involuto, che affonda nel torpore, immerso in un sonno che interessa sia il pensiero che i sensi. Viviamo tempi non esclusivamente, ma troppo spesso votati a una sorta di anestesia. Ecco perché, con tutti questi interrogativi aperti, come un balsamo si affaccia questa formula mai sperimentata prima, la quale si presenta come un invito al risveglio, un'occasione oltre che di ripresa anche di convivialità, di dialogo, incontro e scambio dopo tanta insularità e un più o meno forzato isolamento.

Possiamo vedere questo "format" anche come un dialogo avente come protagonisti la voce e il pianoforte, dove si dà testimonianza di un dinamismo seguito da un momento informale, in cui si brinda e si scambia qualche parola. "Dynamis", l'umano di questo è fatto, di una partecipazione che si manifesta nella sua semplicità e disarmante elementarità. Ed è proprio tramite questo elemento che l'uomo cresce, evolve, è in grado di scoprire e scoprirsi. Afferma Claudia Baracchi: "Mi sono proposta di dialogare con lo stesso intento di chi ha pensato quest'evento, Luca e Silvia, ma anche con Luisada, che andremo ad ascoltare. Mio desiderio è semplicemente suggerirvi alcune considerazioni molto rapsodiche sul tema che mi è stato indicato, non per mia scelta, allo scopo d'inaugurare questo ciclo di serate. Sulla potenzialità innanzitutto, anticipando cosa c'è nella parola greca dynamis, che vuol dire dinamica". Si prospettano quindi alcune riflessioni molto informali, prima di tutto sulla sua etimologia greca, che significa principalmente potenza, nel senso di forza. In musica la parola dinamica conserva intonso il legame con questo senso originario, riguardando le variazioni di sonorità intese come livello di pressione sonora. Più specificamente, i rapporti d'intensità del suono che si producono nel discorso musicale tra nota e nota oppure tra momento e momento nell'economia di un brano. L'intervallo stabilito dal suono più debole e quello più forte, tra parte e parte, dal piano al forte, dal decrescendo al crescendo. Si tratta allora, letteralmente, di forza applicata allo strumento per ottenere una certa gradazione più o meno intensa di suono.

Ma noi, in realtà, nel linguaggio non tecnico definiamo dinamico ciò che è caratterizzato da movimento, non pensiamo tanto alla forza ma al verificarsi di un cambiamento, quindi una cinesi da considerare non strettamente come locomozione ma come mutamento, trasformazione, anche avvicendamento. La dinamica si può altresì estendere a più fattori, tra più componenti di uno stesso seme organico. Volendo aprire un altro capitolo, in meccanica, che è una parte della fisica, la dinamica studia i movimenti di un sistema in relazione alle sue cause, considerando la forza come cagione del movimento. In buona sostanza, non c'è discrasia tra questi concetti poiché, sia nel caso dell'intensità sonora sia in quello del movimento si parla sostanzialmente della stessa cosa. D'altra parte i livelli di sonorità sono, come sappiamo, anch'essi questione di movimento, magari non li concepiamo nella loro immediatezza fisica, ma comunque di movimento si tratta essendo il suono vibrazione, oscillazione, movimento di un corpo, l'aria, con gli addensamenti e le rarefazioni delle sue particelle. I contorni della questione acquistano allora maggior nitidezza, nella constatazione che il minimo comune denominatore di questo concetto rimane il movimento in tutte le sue declinazioni. Tuttavia, siamo ancora all'interno di un paradigma puramente meccanicistico, legato a un fenomeno determinato dall'applicazione di una forza. Un esempio tipico è il gioco del biliardo, dove una palla colpisce l'altra in un impatto che causa il moto, una forza applicata alla seconda palla.

Le premesse per approfondire il discorso ci sono tutte e ci consentono uno sguardo retroattivo, in vista di un arricchimento, e non di poco, delle nostre riflessioni intorno a questo tema. Dynamis significa anche, e crucialmente, possibilità, potenza nel senso di potenzialità, un termine che viene in ausilio al nostro tentativo di capire cosa c'è in gioco nella dinamica in ambito musicale, la quale non riguarda soltanto l'esercitare una maggiore o minor forza allo strumento per ottenere un corrispondente volume di suono. Nel definire un raggio d'azione di particolare ampiezza, una volta indagato il senso del movimento "tout court", non deve sfuggire il suo manifestarsi in modi anche misteriosi, non meramente relativi alla meccanica. Sono delle modalità enigmatiche, che non si limitano all'impatto di una forza esterna. Tutto il pensiero antico verte molto su tale argomento, pensiamo all'amore, eros in greco, come elemento causa di movimento eppure per nulla in senso meccanicistico o deterministico o in termini scientifico/fisici. Pensiamo per esempio, e siamo già in ambito più specificamente aristotelico, alla forza dell'amore, al sommovimento che essa provoca, che non è certo questione di applicazione cinetica ma è una cosa assai oscura, un'attivazione che è da un lato endogena: "io mi sento mosso da dentro", eppure anche causata dall'esterno, da ciò verso cui per amore, eroticamente, nel senso più ampio del termine, mi muovo. Riflettiamo allora sulla potenza di questa motivazione non meccanicistica, nell'accezione di desiderio e non solo nel senso più stretto dell'erotismo.



Si è toccati intimamente senza essere fisicamente toccati, si è mossi, attratti, ma senza alcuna azione fisica diretta; il desiderio muove a partire dalla mancanza, dalla distanza. Se il possesso è godimento, il desiderio è un anelito generato da una mancanza. Ecco che si origina un moto non derivante da uno stimolo fisico. L'aspirazione si fa movente, motivandoci nel modo più sconcertante possibile, tanto da non saper renderne ragione in termini matematico/scientifici. Siamo nella cerchia del pensiero di Aristotele, ma anche di Dante, il quale riceve il filosofo greco attraverso gli Arabi. "L'amor che move il sole e l'altre stelle" è l'ultimo verso contenuto nel Paradiso della sua Divina Commedia. Per Aristotele è l'eros, vale a dire il principio che anima tutto il cosmo e pure quegli esseri mortali, sofferenti, viventi di pathos che siamo noi. Sia per noi, nella nostra finitezza, fragilità e anche temporaneità, che per tutto ciò che ha vita nel cosmo il principio fondamentale è quello del dinamismo, del protendersi verso quest'icastico germe che i greci chiamano eros. Claudia Baracchi, con eloquio persuasivo porge alla nostra attenzione alcune brevi considerazioni sulla dynamis proprio a partire da Aristotele, il filosofo che ha elucubrato su questo concetto in maniera così ricca e sorprendente, nella tensione al superamento di una concezione del fenomeno d'interesse puramente fisico. Dynamis emerge quindi come espressione di portata semantica estremamente ampia; poiché forza e potenza significano potenzialità (e quindi possibilità), la dynamis è anche traducibile come eventualità, un qualcosa che non è sottoposto a necessità, con i suoi ineluttabili automatismi, ma che è probabile.

Non un "quid" che tassativamente è, ma che può essere. In tal modo si apre il grande orizzonte dell'esplorazione e della sperimentazione, della ricerca indirizzata agli sviluppi dell'essere, con avventurose escursioni nell'idea di capacità, abilità, facoltà e potere, nel senso più ampio dell'accezione, anche politico. In grazia di questa ricerca si scandaglia l'essere in grado di fare qualcosa, i presumibili sviluppi di ciò che è latente, in potenza. Tutto questo rientra nella dynamis, lemma attribuibile a un linguaggio antichissimo, a partire già da Omero e dal repertorio epico. Tuttavia, l'elevato pensiero di quello che si cela in potenza dentro questa parola è di pertinenza aristotelica, è lui che per la prima volta sonda in profondità i termini della questione. Non manca un addentellato alla polemica con i megarici, i quali dicevano che solo quello che esiste è. Loro consideravano l'essere, in maniera piuttosto "tranchant", come tutto ciò che sussiste. Nel momento in cui io non sono fenomenologicamente testimone di una determinata cosa, per quanto ne so non c'è. Sarebbe come dire che se qualcuno a un certo punto esce da questa sala, allontanandosi dalla nostra portata cognitiva, termina di essere. Aristotele contesta con decisione questa teoria, affermando che l'essere in potenza è un essere a pieno titolo poiché esistono non solo le cose nella loro presenza, ma c'è dell'altro che aleggia, pur nella sua assenza. Si crea una tensione che esita nello sforzo, non ancora intellettualistico ma agente sul piano del presentimento, il quale ci suggerisce che oltre al concreto, ciò che noi chiamiamo il reale, esiste anche una sorta di accompagnamento, un qualcosa di latente che invita a considerare i dati percepibili come non esaurienti la realtà.

Questi si affermano, si presentano nel loro torpore, ma non esauriscono il nostro aspetto percettivo. Si affaccia allora un'idea pressante: io avverto di più di quello che è qui presente, un adesso che è comunque fiancheggiato da un non so che in potenza, che retrocede di un passo rispetto all'immediata percepibilità ma che viene tuttavia da me captato. Aristotele ci fa sapere che la dynamis non si può concettualmente determinare, ma quello che ora non è forse sarà, inquadrando una possibilità, non una fatalità, la quale al contrario sta a indicare una cosa che avverrà senza se e senza ma. La potenzialità sta nella condizione del verificarsi, ma anche del non verificarsi. Pensiamo in musica al potere del pianissimo, agisce in sottrazione, per retrocessione accende la nostra attenzione all'ennesima potenza. In questo noi acuiamo la nostra capacità di seguire quello che sta succedendo nella linea disegnata dalla melodia, dallo strumento, proprio perché ci rendiamo conto che l'intensità del suono si affievolisce sempre più, costringendoci ad affinare la nostra capacità percettiva se non vogliamo smarrire il discorso musicale. A causa di questa ragione, la potenzialità non è oggetto per Aristotele di conoscenza concettuale. Dunque, ciò che è in potenza c'è e non c'è. Il grande filosofo dell'antichità afferma che l'essere si presenta in questa maniera problematica, non ulteriormente districabile. È tuttavia innegabile che noi pre-sentiamo una realtà, vista così com'è, che non può fornirci la parola definitiva, ma soltanto il terreno attraverso cui l'eventuale potrà manifestarsi.

Il reale e il potenziale non sono poli opposti ma eventi intrecciati, impensabili poiché ciò che è reale crea una serie di condizioni affinché il possibile possa trapelare. E, d'altra parte, il fattibile fa sì che il concreto non sia mai statico, ma avvertito come sempre in procinto di diventare qualcosa d'altro, con una staticità non tramandabile di momento in momento sempre identica a se stessa, ma in mutamento con il procedere del tempo; nei suoi balzi, nei passi progressivi diventerà sempre altro. Ne traiamo un grande insegnamento: non esiste un reale nella sua fissità ma questo e il divenire sono inseparabili. Come vediamo, non è un pensiero basato su delle posizioni teoretiche, ma implica il tentativo di tenere tutto insieme: ciò che è con quello che può forse essere, compendiabile nell'idea del movimento dell'essere attraverso il tempo, in costante divenire. Abbiamo compiuto un passo in avanti, siamo alfine arrivati all'allargamento del nostro orizzonte percettivo, maggior chiarezza è stata fatta sul cosa significhi movimento e immobilismo. Scoprire il possibile vuol dire rivelare non solo la sua presenza, ma anche quello che può o potrebbe forse essere, e ciò che potrebbe può anche non essere. Si apre allora un varco nella nostra mente, come nel reale, in gioco qui c'è una certa liberazione da una visione in qualche modo miope. Proviamo a pensare, anche esistenzialmente, a quello che noi sentiamo come inevitabile e che ci circonda da tutte le parti, un tema che per sua natura s'impone con la massima perentorietà, affrancando la nostra mente nell'introdurci in un'altra dimensione.



Il parallelo con l'arte musicale sorge spontaneo, nel raggiungere contezza della natalità di un'opera, nella sorpresa di uno svolgimento melodico o armonico, nello stupore per inattesi movimenti e variazioni d'intensità, graduali o repentini che siano. Liberazione è la parola d'ordine. Di conseguenza, riusciremo a conquistare un livello superiore di coscienza: ciò che è non deve per forza continuare a esserlo, le pressoché infinite possibilità di sviluppo ci dicono che una situazione vista come inerte potrà tranquillamente trasformarsi in altro. È un mutamento di prospettiva che può cambiarci la vita, o almeno la nostra concezione di essa. Pensiamo a quante volte ci sentiamo ingabbiati in questo mondo e ne diciamo male perché in questo soffriamo di tanti aspetti patogeni. Ma la potenzialità sta anche nell'invito all'immaginazione, all'imparare a pensare diversamente: è così ma potrebbe anche non essere così un domani o il momento successivo. Si possono aprire varchi dove mondi interi si configurano in maniera altera, in un modo per noi oggi quasi inconcepibile. Ciò di cui stiamo parlando è l'apertura di porte sino a questo momento chiuse, di vie d'uscita o evoluzioni varie ed eventuali. In questo processo fantastico acquisisce un notevole peso la creatività artistica, per eccellenza quella foriera del trasmutare. Volgendo lo sguardo verso la nostra vita, ci accorgeremo che anche esistere in questo mondo richiede un gran numero di risorse, ce ne vogliono davvero tante per non essere letteralmente sopraffatti da strutture che non sempre ci fanno bene.

Saremo allora ancora più vicini alla comprensione di un moto, di un dinamismo diverso da quello della macchina. Pure il movimento di chi suona, di chi tocca meccanicamente i tasti, non è spiegabile soltanto corporalmente. Non dobbiamo dimenticare il miracolo dell'interpretazione, ogni volta assolutamente singolare e irripetibile; ogni variazione della dinamica sonora e tutto il corteo di elementi che stanno alla base di un'interpretazione non rientrano in un organismo da pensare come congegno meccanico. È opportuno invece sentirla come una conversazione che va nella direzione della dinamica al di là della meccanica, del corpo vivente, come una corrente che fluisce dall'esecutore all'organismo senziente, emozionato ed emotivo che noi siamo, con tutta la forza espressiva che parte da dentro per venire fuori. Esprimere, dall'etimo "ex premere", significa tirare fuori, premere con forza dall'interno all'esterno. Ci sarebbero molte cose da dire sull'esperienza di un musicista che si confronta con uno strumento, il pianoforte, che "par excellence" ha a che fare con la dinamica. Ai tempi di Bach e Telemann ce n'era uno, il flauto a becco, che veniva utilizzato con grande frequenza ed era prediletto da questi compositori. È uno strumento che nella sua variante barocca è praticamente scomparso in quanto aveva poca flessibilità proprio sul piano della dinamica, per tutta una serie di motivi. Per esempio, quando si applica troppa forza nell'emettere il fiato, la sua intonazione diventa imprecisa e il timbro sgraziato, cosa che ne limita fortemente la resa dinamica.

Per questo, già dai tempi di Mozart fu inserito nell'organico orchestrale il flauto traverso, che ha al contrario un notevole range dinamico perché costruito con caratteristiche fisiche e meccaniche differenti. Stessa storia per il pianoforte, che ha nel tempo completamente soppiantato il clavicembalo. Il clavicembalo pizzica le corde mentre il pianoforte le percuote, quest'ultimo è quindi in grado di sviluppare una dinamica sconosciuta al primo, peculiarità di cui ben presto tutti i compositori dell'epoca si resero conto, che presero a benvolerlo assumendolo istantaneamente dal momento in cui fu tecnicamente disponibile. Un cosmo dinamico che divenne sempre più specchio dell'anima musicale e suo criterio dirimente, coestensivo con il concetto di modernità. Da tutto l'Ottocento in poi ecco che la potenzialità dinamica di uno strumento ebbe sempre più rilievo nei concerti, basti pensare ai recital lisztiani che si tenevano in grandi sale, dove il suono doveva viaggiare con grande efficacia in vasti spazi. Il '900 è poi una storia a parte, con il suo eclettismo; di certo si può affermare che nella grande stagione della musica cosiddetta classica, sino a giungere al romanticismo, un'enfasi sempre maggiore venne riservata proprio all'escursione dinamica; ogni compositore non si cimentò in mere impalcature matematico/geometriche, ma volle esprimere la sua interiorità in questo movimento dall'interno verso l'esterno. Un andamento che tende a farsi corpo unico con lo stesso strumento, le corde dell'anima con i tendini della mano del pianista, che diventano una sola cosa con le strutture portanti del pianoforte, il suo telaio, le corde metalliche.

La propagazione sonora, non più intesa in maniera puramente fisico/acustica, ingloba tutto l'uditorio in una sorta di estasi sensoriale. Si delinea un cammino unitivo dal pianista al pianoforte e da questo a chi ascolta, che rimane catturato in un gioco dominato dall'idea di compartecipazione nel creare quello che è l'evento musicale nella sua interezza. Un evento complesso che non dipende da un solo ingrediente ma è invece diffuso, fortemente aleatorio nel senso d'incalcolabile. Frutto di varie interpolazioni, la rassegna PianoSofia avrà proprio il pianoforte al suo centro come indiscusso campione di dinamica.


IL RECITAL DI JEAN-MARC LUISADA
ESPRIT DE FINESSE



Franz Joseph Haydn (1732 - 1809)
Partita (Divertimento) in sol maggiore Hob:XVI:6
- Allegro
- Minuetto e Trio
- Adagio
- Allegro molto

Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
Suite Française N. 5 in sol maggiore BWV 816
- Allemanda
- Corrente
- Sarabanda
- Gavotta
- Bourrée I
- Bourrée II
- Giga

Fryderyk Chopin (1810 - 1849)
Grande valse brillante in mi bemolle maggiore Op. 18
Valse Brillante in la minore Op. 34 N. 2
Fantasia in fa minore Op. 49

George Gershwin (1898 - 1937)
Rhapsody in Blue

Bis:
Johannes Brahms: Intermezzo Op. 118 N. 2 in la maggiore
Claude Debussy: Poissons d'or. Animé in Fa diesis maggiore, da Images - Deuxième Série
Gabriel Fauré: Nocturne N. 6 in re bemolle maggiore Op. 63
Wolfgang Amadeus Mozart: Ballet "Les petits riens" KV 299b N. 14 - Andante

Pianoforte Bösendorfer Gran Coda 280 Vienna Concert




Per l'inaugurazione del Festival PianoSofia si è voluta sul palcoscenico la presenza di un pianista colto, elegante, vivace e molto, molto originale, quel tanto che basta per renderlo irresistibile. Abbiamo la fortuna di averlo qui con noi dopo più di trent'anni di assenza da Milano. L'arte che stasera profonde al pubblico è il risultato non solo di un grande talento ma anche di una vita spesa nell'affinamento delle proprie capacità. Jean-Marc Luisada ottenne nel 1983 un'affermazione importantissima al Premio Dino Ciani, in seguito è venuto poche volte, ahinoi, nella capitale lombarda ma oggi finalmente vi fa ritorno, venendo direttamente da Parigi. Ci porta in dono il dinamismo, tutta la "dynamis" insita nel suo modo di suonare, invero di grande originalità. Urge in lui questa forza creatrice, legata proprio al tipo di suono che riesce a ottenere sullo strumento, al suo fraseggio, a una capacità discorsiva che è veramente unica. Dice emozionato Luca Ciammarughi: "Quando ieri Luisada ha toccato il pianoforte, ho avuto quasi uno shock perché lui ha un suono veramente meraviglioso". Nato a Biserta, in Tunisia, nel 1958, ha iniziato a suonare il pianoforte all'età di sei anni, mentre a sedici ha intrapreso gli studi al Conservatorio di Parigi con Dominique Merlet e Marcel Ciampi, per il pianoforte, e Geneviève Joy-Dutilleux per la musica da camera. Ha perfezionato i suoi studi anche con pianisti della levatura di Nikita Magaloff e Paul Badura-Skoda. Nel suo percorso formativo ha studiato anche alla Yehudi Menuhin School di Londra e, in seguito, al prestigioso Conservatoire National Supérieur de Musique de Paris, dove nel 1977 ha vinto il Premiere Prix di pianoforte nella classe di Dominique Merlet.



Non pago, l'anno successivo si è aggiudicato il Premiere Prix di musica da camera nella classe di Geneviève Joy-Dutilleux. Si è affermato, come citava Luca Ciammarughi nella sua presentazione, al Concorso Dino Ciani del 1983 e all'illustre Concorso Chopin di Varsavia nel 1985, dov'è risultato vincitore del 5° premio. Anche un "tòpos" nella vita di un artista come la produzione discografica, assume con lui una rilevanza tutta speciale. Entra nell'Olimpo dell'etichette discografiche con la firma, nel 1998, di un accordo esclusivo con la RCA Red Seal. Considerato come uno dei più grandi interpreti al mondo della musica di Chopin (ce ne siamo accorti stasera), ha inciso diversi dischi con la Deutsche Grammophon e la Sony RCA, tra cui i valzer, le mazurche e una vera "chicca", la versione da camera, invero di raro ascolto, del primo concerto per pianoforte del compositore polacco con il Talich Quartet e il contrabbassista Benjamin Berlioz. Coglie i frutti dei suoi grandi meriti artistici diventando membro della facoltà dell'École Normale de Musique de Paris-Alfred Cortot e Officier des Arts et des Lettres. Un vertice di squisita eleganza è l'album della Deutsche Grammophon "Chopin: 17 Valses", come pure bellissimo è il suo ultimo CD, pubblicato da Sony RCA Red Seal nell'autunno 2018, con le Davidsbündlertänze Op. 6 e Humoreske di Robert Schumann. Il programma di stasera si è snodato dal classicismo di F.J. Haydn al '900 di G. Gershwin, passando attraverso il barocco di J.S. Bach e il romanticismo di F. Chopin, una specie di "confessioni incrociate" che abbracciano due secoli di storia della musica.



Dismesse temporaneamente le vesti della filosofa, è Claudia Baracchi che ce lo illustra brevemente. Anche la storia può essere vista come movimento nel suo alternarsi di voci che, lungi dal rivelarsi disorientante, consente di riannodare le fila di un percorso tutto umano in cui si avverte un'unità di fondo. Ma ci sono episodi che colpiscono più di altri, così lei si dichiara affatturata nella Partita di Haydn da un Adagio e un terzo tempo che trova assolutamente straordinari a proposito di delicatezza dinamica. Ci parla, nel concludere il suo intervento ad ampio raggio, dell'ultimo brano in programma, cioè la trascrizione per pianoforte solo della Rapsodia in Blu di G. Gershwin, composizione che era in origine un brano da suonare con due pianoforti. Fu il direttore d'orchestra jazz Paul Whiteman che spinse Gershwin a presentare la rapsodia come brano per pianoforte e Big Band; particolare che la Baracchi ignorava, rientrando in una sua recente scoperta. A proposito di fonti misteriose della creatività, pare che l'ispirazione gli venne durante un viaggio in treno. Lo stesso Gershwin raccontò: "È stato sul treno, con i suoi ritmi d'acciaio, il suo rumore secco e violento che è così spesso stimolante per un compositore. Mi capita frequentemente di sentire la musica proprio quando sono immerso nel rumore e all'improvviso ho sentito, ho persino visto sul foglio l'intera Rhapsody dall'inizio alla fine". Era il 1924 quando la Rapsodia andò in prima a New York, il compositore aveva allora venticinque anni. Nel pubblico c'erano Strawinsky e Rachmaninov.



Fu un concerto strabiliante, tutti rimasero senza parole, come presi da un entusiasmo inspiegabile. Alla "premiere" si generò insomma un grande trambusto per questo concerto che nelle locandine era annunciato come "An experiment in modern music", d'accordo con il sentire del compositore, che amava definirlo proprio in questo modo. Parlava di una sorta di fantasia policroma, a proposito di potenzialità un caleidoscopio musicale dell'America con il suo miscuglio di razze e il suo incomparabile brio nazionale, il blues, la sua "pazzia" metropolitana. "Era un mondo giovane quello degli Stati Uniti ma oggi non lo è più.", conclude Claudia Baracchi "La serata termina con questo brano di fortissimi contrasti dinamici, espressione di una vitalità prorompente, di un entusiasmo sorgivo che inaugura un mondo capace di essere nuovo, in grado d'immaginarsi altrimenti. Non si era mai sentita una cosa del genere prima di quella sera. Jean-Marc Luisada, pianista del non esaurito né esauribile in un singolo tratto caratteriale, ha dalla sua un'eleganza che credevamo di aver smarrito negli archivi dell'interpretazione. Prima di sedersi sullo sgabello, rivolge un inchino a tutti noi e alla voltapagine che lo accompagnerà nel corso del recital, gesto che mai ho visto prima e che riconcilia con il sapore antico di un'amabile umanità. Anche il solo vederlo allo strumento è un'esperienza che apre un mondo, le sue dita compiono sui tasti eloquenti movenze coreutiche, per quanto piccole siano. Nella Partita - Divertimento di Haydn esordisce con un portamento da scena teatrale, effigiato dai colorati timbri di una commedia tutta umana.



Ma, e qui ritorniamo al discorso della potenzialità, è una forbitezza che può ingannare, vive nel qui e nell'ora e può rapidamente convertirsi in felini affondi dinamici e incisive graffiate espressive. Chi, come me, poteva agevolmente vedere il danzare delle sue dita sulla tastiera di quel magnifico, plenipotenziario strumento che è il Bösendorfer Gran Coda 280 Vienna Concert, si sarà certamente accorto del loro speciale approccio: la mano era piuttosto alta sui tasti, soprattutto nei momenti cantabili, mentre nelle parti più rapide e virtuosistiche tendeva ad abbassarsi. Una modalità che non avevo mai visto prima e che consente probabilmente a Luisada di avere un pieno controllo proprio sulle sfumature coloristico/dinamiche. È una delle cose che più mi hanno impressionato di questo grande pianista, insieme all'imprevedibilità del suo rubato, davvero modulato sull'onda dell'anima. Freschissimo e nient'affatto paludato si presenta il Bach della Suite Française N. 5 BWV 816. Dotato di un infallibile senso teatrale, Luisada si fa narratore di un'affettività elegantemente recitata, serrata e senza compiacimenti, sempre intraneo a una partitura che evidentemente sente nel profondo e, per questo, è in grado di sviscerare sin nelle sue più furtive pieghe. Da quanto sinora apprezzato si direbbe che il pianista francese trovi il suo terreno ideale in un'elegante forbitezza, supportata da un non comune controllo dello strumento in tutti i suoi parametri. Ma ciò che vediamo e ascoltiamo, dynamis e dinamica insegnano, non è una cosa che si dà fissamente, suscettibile com'è di evoluzioni anche di ampia portata.



Il salto dal classico e dal barocco al romanticismo ardente di Chopin è netto. Sin dalle prime note del Grande valse brillante capisco perché Jean-Marc Luisada è ritenuto uno dei più grandi interpreti al mondo della musica di Chopin. Mi lascio investire dal vento impetuoso di una musica dall'incontenibile potenza espressiva, nella Fantasia in fa minore Op. 49 il Bösendorfer, sotto le energiche dita e braccia del pianista (in realtà di tutto il corpo), sprigiona un'incredibile potenza di fuoco. Il suono ci corteggia, ci blandisce nei più sottili pianissimo, salvo poi esplodere irruente negli "ff", sviluppando una gamma dinamica straordinariamente ampia. Quale miglior dimostrazione di che cos'è la dinamica? Un fremito percorre il pubblico, commosso dall'oscillare del sentimento tra gli opposti poli di grandi delicatezze e telluriche conflagrazioni. Che Luisada sia dotato anche di un invidiabile "swing" lo dimostra la sua effervescente lettura della Rhapsody in Blue di Gershwin. Il trillo e la scala cromatica ascendente iniziali ci trasportano d'emblée nella realtà metropolitana newyorkese, con i suoi ritmi frenetici, olografata con un senso del sincopato molto efficace. Anche in questo celeberrimo brano il pianista francese gioca molto sui contrasti dinamici, che qui abbandonano la grazia sorvegliata messa in campo in Haydn e Bach per farsi più "maleducati" e vividi. Ma lui non è disposto ad abbandonare del tutto un pianismo tendenzialmente calligrafico, pur se proclive a cambiare camaleonticamente pelle; lo pratica nei momenti più distesi, come il "Meno mosso", incantevole nel suo essere riflessivo e insieme tenero, per dimenticarlo subito negli episodi più frizzanti.



In questa serata inaugurale folta è stata la partecipazione del pubblico, che ha seguito con grande attenzione l'evento. Jean-Marc Luisada ha tra le sue virtù proprio quella di una straordinaria gestione della dinamica, oltre al gusto sopraffino, alla chiarezza espositiva, all'interpretazione sempre molto personale della partitura, nel rispetto di un'eloquenza "illuministica" e insieme profondamente espressiva. Più volte nel corso di quest'emozionante recital, vedendo il gesto della sua mano sinistra nel rapido e incisivo arpeggiare, ho pensato alla nota dichiarazione di Beethoven, il quale diceva che bisognava suonare il pianoforte come un'arpa. Mai come in questa serata ho avuto l'impressione che l'esecutore "pizzicasse" in certi frangenti i tasti con un movimento molto simile a quello dell'arpista sulle corde. Ben quattro sono stati i bis da lui concessi al termine del programma, sotto la spinta di scroscianti applausi. Prima di abbandonare la Casa degli Artisti, ho bevuto un calice di ottimo Verdicchio, offerto dall'organizzazione del festival, prima d'immergermi nuovamente in una Milano fredda e piovosa sulla via del ritorno a casa.




Alfredo Di Pietro

Ottobre 2020


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