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 Dances and Tales - Alberto Chines Riduci


 

 

Nelle eleganti note di copertina a corredo di "Dances and Tales", Angelo Foletto usa il termine baricentro, legandolo al concetto del danzare. È un'espressione che, in realtà, potremmo efficacemente adoperare anche per racchiudere l'essenza primaria dell'arte pianistica qui espressa, rifratta nei molteplici raggi che rischiarano le composizioni contenute nelle ventitré tracce del CD. Il baricentro, inteso come punto d'equilibrio dei tanti elementi intrinseci a un interprete, poi rivelati nel processo di metamorfosi del segno scritto, dalla carta a quell'insieme di vibrazioni veicolato dallo strumento che costituisce la musica. Più che essere una promessa, Alberto Chines è oggi una bella realtà del pianismo italiano; ho avuto il piacere di conoscerlo personalmente nel maggio 2017, in occasione dell'evento milanese "La Primavera di Baggio". È cresciuto bene Alberto, trentunenne musicista palermitano. Attingendo al suo corposo (nonostante la giovane età) curriculum artistico vengo a sapere che ha iniziato lo studio del pianoforte a sette anni sotto la guida di Roberto Agrestini, poi con Irene Inzerillo ha mosso i primi passi nell'ambito del concertismo. Nel 2005 viene ammesso all'Accademia Pianistica di Imola, dove ha studiato con Franco Scala e Piero Rattalino e, nello stesso anno, ha conseguito il diploma di pianoforte con il massimo dei voti e la lode presso il Conservatorio Bruno Maderna di Cesena. In quest'istituzione, sempre riportando la massima votazione, ultima il biennio di specializzazione di secondo livello. Ha frequentato il Conservatorio di Bolzano con Davide Cabassi, da cui sono persuaso abbia assorbito quel neutrale rigore che manifesta nelle sue interpretazioni.

A quindici anni ha debuttato presso il Teatro Massimo di Palermo, sua città natale, e nel 2011 ha vinto il primo premio al Concorso Pianistico Internazionale "Palma d’Oro" di Finale Ligure. Nel 2013 risulta vincitore del Sony Classical Talent Scout di Madesimo e, l'anno successivo, consegue il secondo premio all'Euregio Piano Award (a Geilenkirchen, in Germania). Si è esibito presso la Sala Mozart dell'Accademia Filarmonica di Bologna, al Teatro Olimpico di Vicenza, al Politeama Garibaldi di Palermo, alla Van Cliburn Recital Hall di Fort Worth in Texas e poi in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia e Germania. È storia più recente il suo debutto a Londra per il Keyboard Charitable Trust e al Tiroler Festspiele Erl (Austria). Arriviamo al 2019, anno in cui è stato pubblicato questo suo primo CD con musiche di J.S. Bach, R. Schumann, M. Ravel e B. Bartók. Alberto Chines è molto attivo anche nell'ambito cameristico, collaborando con la violista Anna Serova, col chitarrista Eugenio Della Chiara, col Quartetto Nôus e il pianista Emanuele Delucchi. Negli anni ha seguito diversi progetti in trio (Trio Casa Bernardini), quartetto e quintetto, ha inoltre ideato la rassegna concertistica internazionale Musica Manent Festival a Ustica e collabora con la Primavera di Baggio di Milano. Dal 2020 è Steinway Artist. Anche se qualche nostalgico potrà storcere il naso, oggi, per nostra fortuna, le modalità di fruizione musicale sono profondamente cambiate, virando decisamente verso il democratico.

Pur se convinto che possedere un supporto fisico come il CD sia altra cosa che riporre i nostri file audio in una capiente memoria digitale, o ascoltarli tramite un servizio di streaming musicale, ritengo ingiusto non riconoscere il vantaggio che tale ventaglio di possibilità comporta per l'utente. Già quindi pregustato su Spotify, dopo qualche traversia postale ricevo questa "premiere" discografica di Alberto Chines, passando vantaggiosamente dall'Mp3 al formato non compresso, con la possibilità di leggere le belle note stilate dall'autorevole Angelo Foletto. Le sei Suite francesi BWV 812-817 furono composte da Johann Sebastian Bach tra il 1722 e il 1725, battezzate però come "francesi" solo trentasette anni dopo, nel 1762, dal critico, compositore e teorico della musica tedesco Friedrich Wilhelm Marpurg. Fanno da "pendant" alle Suite inglesi, analoga raccolta scritta anteriormente, iniziata il 1715 e conclusa probabilmente fra il 1717 e il 1723 a Cöthen. Tale denominazione, avvallata nel 1802 dal musicologo e musicista J.N. Forkel in ragione del ravvisato gusto francese, in realtà è piuttosto epidermica se non fuorviante in quanto le Suite abbracciano con evidenza canoni compositivi italiani, senza contare che Bach in queste si attenne anche movimenti di danza (come la polonaise della sesta suite) non inquadrabili nella maniera francese. La nobile lettura che Alberto Chines ci dà della Suite N. 5 in sol maggiore BWV 816 non è che una conferma della sua raggiunta maturità.

Il cimento bachiano, per molti artisti un approdo piuttosto che una partenza, viene agevolmente affrontato e superato in una sorta di "disappearance" della tecnica, in lui salda come può esserla in un provetto recitalista, un processo che alla fine pare stendere un oblio sullo "strutturalismo" che c'è a monte di ogni esecuzione, privilegiando l'emersione di un portamento musicale dalla rara affettuosità, eminentemente francese nel gusto e nella grazia. L'immersione in un ideale alveo coreutico è totale, un fondale dove le correnti si sviluppano con movimenti estremamente delicati e meditativi nelle danze lente, mentre nelle veloci veniamo trascinati nel turbine delle infallibili geometrie bachiane, colte da Chines con irresistibile "verve" ritmica e nell'economia di una visione particolarmente lucida. Già dall'iniziale Allemande si potrebbe ravvisare, sbagliando, un andamento che fa di una tranquilla omogeneità il suo vessillo, ma un ascolto più attento rivela che lo scorrere delle quartine di semicrome è tutt'altro che monocorde, essendo sottilmente variato da un'agogica microchirurgica, mai eclatante ma che condiziona sostanzialmente la resa finale. Nella Courante, vivace danza di origine francese in tempo ternario, il brioso discorso intessuto dal pianista palermitano si dipana compatto, senza che la più piccola indecisione subentri a turbare la spumeggiante scansione ritmica. Ed è proprio in questa, come nelle altre danze di carattere vivace (Bourrée, Gigue) che emerge un pianismo dalla condotta brillante, determinato e sicuro di se, senza che mai tuttavia si trasformi in spavalderia.

La disciplina, la deferenza per l'autore e il grande controllo che sono alla base dell'arte pianistica di Alberto Chines, gli evitano d'incorrere in protagonismi o di usare la materia musicale come pretesto per sfoggiare la propria bravura. La prova bachiana si conclude con un'effervescente Gigue. L'alternanza tra movimenti danzanti lenti e veloci scorre in maniera del tutto naturale, senza spigolosità, consequenziale nel suo alternarsi tra caratteri opposti. Se proprio vogliamo perseverare sul concetto di baricentrismo, si tratta, a ben vedere, delle medesime qualità sulle quali il nostro fa leva nell'interpretazione dei Papillons Op. 2 di Robert Schumann, opera difficile, ricca di screziature psicologiche e rimandi letterari. Per la piena comprensione di questo ballo in maschera messo in musica, dobbiamo far riferimento al romanzo Flegeljahre (Anni Acerbi) di  Jean Paul Richter, scrittore prediletto da Schumann, dove si narra della vicenda dei due fratelli gemelli Walt e Vult, identificabili negli pseudonimi di Florestano ed Eusebio, cioè i due tratti caratteriali entro cui oscillava continuamente la sua poetica. Papillons Op. 2 fa esplicito riferimento al capitolo finale del romanzo: il "Ballo mascherato", dove le identità dei due fratelli, antitetici nell'indole, prima si nascondono e poi si svelano nel gioioso frangente di una festa, mettendo in campo se stessi e i propri sentimenti. La connessione tra Flegeljahre e Papillons è talmente stretta che l'autore, nella sua copia del volume, segnò diversi passi del penultimo capitolo mettendo a margine i numeri da uno a dieci, corrispondenti ai primi dieci brani dell'opera.


Un'enigmatica storia di equivoci in cui sia Vult che Walt amano Wina, che a sua volta ama invece Walt, senza però che nessuno dei fratelli abbia mai svelato il suo sentimento d'amore verso la donna. Nel penultimo capitolo del romanzo si racconta di questo ballo cui tutti e tre i personaggi partecipano, ma nessuno di loro è al corrente di quale costume rispettivamente indossino. Walt, travestito da cocchiere, e Wina, con una veste da monaca, si riconoscono e ballano insieme, Vult invece indossa un costume femminile. Quest'ultimo nota i due ballare e propone al fratello di scambiarsi il costume, lui accetta e Vult ritorna nella sala, avvicina Wina imitando la voce di Walt e balla a sua volta con lei, che però è persuasa di avere di fronte l'amato Walt. La donna confessa il suo amore, credendo di avere di fonte Walt, Vult capisce e rimane profondamente disilluso per non essere lui il vero oggetto di desiderio della donna. Nel capitolo finale, Vult abbandona il ballo e fugge addolorato verso casa, scrive una lettera indirizzata al fratello dove gli dice che se ne andrà libero per il mondo. Poi anche Walt ritorna a casa, ma si addormenta senza aver visto la lettera; nelle prime ore del mattino, risvegliatosi, racconta al fratello il sogno che ha fatto, ma poi lo sente andar via mentre suona il flauto. L'epilogo: "Walt, rapito, continuò ad ascoltare le note che parlavano fuggendo lungo il vicolo, e non si accorse che con loro fuggiva suo fratello".

In questa raccolta di dodici brevi brani, l'avvicendarsi di sentimenti divergenti viene affrontato da Chines in una lettura minuziosa, sempre estremamente calibrata, eppur in nessun modo tendente al monotono, men che meno allo scolastico, poiché nel nostro strumentista c'è sempre spazio per la fantasia e il volo, come nelle vaporose crome ascendenti dell'Introduzione (moderato) che conducono al Walzer (N. 1). I lampi di luce, i soprassalti emotivi e le zone d'ombra vengono sottolineati con schietta eloquenza, assecondati da un estro ben tenuto sotto le briglie, dove lui esercita una sicura eleganza ma non sembra essere disposto a lasciarsi andare completamente a quella "bizzarria", tutta schumanniana, che restituisce ogni frase come un piccolo "shock", imprevedibile come un fulmine a ciel sereno. Anche nei momenti di maggior libertà, nelle circostanze in cui l'andamento espressivo suggerirebbe un comportamento più audace, lui sembra ricondurre tutto a un prelibato "esprit de géométrie". Alberto Chines è un narratore impegnato in un racconto dove la chiarezza espositiva è costantemente in cima ai suoi pensieri e il ferreo controllo di ciò che passa dalle sue mani non deve mai venir meno. A lui appaiono particolarmente congeniali gli otto Valses nobles et sentimentales (Valzer nobili e sentimentali) di Maurice Ravel, in ragione del suo terso approccio alla partitura, in ogni occasione propenso a una presentazione lineare e allo stesso tempo "charmant". Il titolo è un dichiarato omaggio a Franz Schubert, che nel 1823 scrisse due separate raccolte di valzer, intitolate Valses nobles e Valses sentimentales.

La versione per pianoforte fu pubblicata nel 1911, mentre la "premiere" ebbe luogo il 9 maggio dello stesso anno, inclusa in una serata privata organizzata dalla Société Musicale Indépendante alla Salle Gaveau; al pianoforte c'era il francese Louis Aubert, dedicatario della composizione nonché musicista, compositore e critico musicale, anche impegnato in un'attività concertistica in veste di pianista. Le cronache dell'epoca raccontano che questa raccolta fu presentata in forma anonima, non dichiarandone cioè l'autore, e che Ravel, presente al concerto, si divertì non poco nel vedere alcuni suoi convinti sostenitori criticare aspramente i brani. I "Valses", l'anno successivo furono pubblicati in una trascrizione per orchestra su un'azione coreografica scritta dallo stesso autore. Il balletto venne intitolato "Adélaïde, ou le langage des fleurs" (Adelaide, o il linguaggio dei fiori), rappresentato per la prima volta nel 1912 al Théâtre du Châtelet di Parigi. Qui ascoltiamo una "voce narrante" che senza timore rompe le metriche consuete, "inquina" la circolarità del tipico tempo ternario di valzer con elementi ritmici ambigui. Calligrafico potremmo definire il portamento di Alberto Chines, secondo l'etimo greco di καλός (bello) e γραϕία (scrittura), aderente a una certosina ottemperanza dei segni dinamico/espressivi. Fuori del comune è, per esempio, la meticolosità con cui vengono seguite le indicazioni di crescendo, decrescendo, le forcelle, tutti segni che rendono vivo e vitale il palpitare del valzer d'apertura "Modéré - Tres franc". Un'interpretazione di rara intensità che va veramente centellinata dall'inizio alla fine.

Così scopriamo che il clima sognante in "Assez lent - Avec une expression intense" viene non solo introdotto sottolineando la magistrale e originalissima armonizzazione, ma anche creando un'agogica che definire raffinata sarebbe riduttivo. Il "Mistéurieux" in pp (un peu en dehors) o le diafane e sofficissime acciaccature che compaiono alle misure 13 e 15, sono testimoni del certosino lavoro di affinamento del pianista, tali da dare il massimo risalto a ogni minima nuance espressiva. Con tutt'altro carattere, disinvolto e sbarazzino, si affaccia il "Modéré" (pp léger), quasi eco di trasparenze acquatiche nella parte centrale e tali da ricordarci il debussiano "Reflets dans l'eau". "Assez animé" è un breve e lunatico valzer, dove delle svolazzanti terzine di crome fanno da intercalare. Un'eleganza declinata in toni straniti, "angolosità nate dall'orecchio più raffinato che sia mai esistito" come giustamente affermò Claude Debussy, o, se preferite, l'espressione di un'ironia malinconica ed elegante. Ma il riferimento alla classica danza in ritmo ternario nata come evoluzione del Ländler austriaco, viene rotta, frammentata da ritmi sghembi, riflessa in luci spettrali. Una fluidità violacea che Alberto Chines magistralmente rievoca nelle volute di crome nel "pp Tres fluide" del Valzer N. 5 Presque lent - Dans un sentiment intime. Incalzante e con ripidi sbalzi dinamici il sesto "Vif". Nel penultimo e settimo "Moins vif", troviamo una maggior complessità strutturale. Definito "il più caratteristico" dallo stesso Ravel, essendo movimentato da episodi di carattere contrastante nelle sue sezioni, in cui alla rarefazione consegue la ripresa di ritmi più densi; si generano in tal modo delle tensioni e detensioni che suggeriscono un andamento a elastico.

E Bravissimo è Alberto Chines a rievocarne la grande suggestione. Un "Epilogue - Lento" esaurisce in sordina la raccolta, passando in funerea rassegna i temi più importanti precedentemente sentiti. Una sorta di amaro e malinconico "amarcord", dove l'intensità espressiva raggiunge vertici degni de "Le Gibet" da Gaspard de la nuit. Suggestioni profonde lampeggiano nei "Valses Nobles et Sentimentales" di Maurice Ravel; è qui, secondo me, che il valore d'interprete di Alberto Chines raggiunge probabilmente l'apogeo. Raffinatezza e analisi trovano singolare concordanza in una delle letture più moderne, pregnanti, in cui mi sia capitato d'incorrere. Un Ravel visionario e insieme personale, scattante e nettato da una certa aria di maniera, e per questo motivo reso ancor più vivo, malinconico e ironico, ma sempre classicamente terso, tra perle d'introspezione e drammatici risvolti. In questo progressivo rincorrersi di brani verso la modernità, un relativo iato si apre tra i "Valses" raveliani e la tecnicamente temibile Dance Suite (Táncszvit in ungherese) Sz. 77 di Béla Bartók. La classica prova del nove, qualora ce ne fosse bisogno, del brillante virtuosismo strumentale di Alberto Chines, intento a una performance che in questo caso assume dei caratteri a metà strada tra il barbarico e lo sfrenato. Si tratta di sei danze composte originariamente per orchestra nel 1923 per celebrare il cinquantesimo anniversario dell'unione di Buda, Obuda e Pest, tre città che ne formarono una sola: Budapest, la capitale ungherese.

Dopo il grande successo riscosso, invero tardivo, Emil Hertzka (editore musicale ungherese) ne commissionò a Bartòk una riduzione per pianoforte, pubblicata nel 1925, che però non fu mai eseguita in pubblico prima del marzo 1945 (il compositore morì il 26 settembre dello stesso anno). Il pianista siciliano si trova di fronte al compito di amministrare brani di varia natura, dove irrompono melodie arabe, valacche, ungheresi e slovacche, mentre nel finale le troviamo tutte riunite in una sorta di passerella conclusiva. Non si può non ammirare nella sua lettura la limpidezza del fraseggio, l'affresco potente, analitico quanto basta per non raffreddare il fuoco che scorre tra le note, e la determinazione. Ritmi ben marcati che vengono catapultati con notevole energia alla nostra attenzione e favoriscono l'emersione della parte più eminentemente percussiva dello strumento. Va da sé che per materializzare queste piccole tempeste occorre un polso pianistico di primissimo livello. Questi sei brani sono un qualcosa che scuote davvero l'ascoltatore, in diametrale opposizione con quello che potrebbe essere un placido mélange; anche l'unico movimento lento (N. 4 Molto tranquillo) non smarrisce quella tensione barbaricamente percussiva che attraversa l'intera composizione. La ventitreesima e ultima traccia di questo bellissimo CD è "La danza slovacca", brano per pianoforte solista sempre di Béla Bartók, tardivamente pubblicato nel 1999. Si tratta di una composizione nello stile dello scherzo, concepita per collocarsi tra il secondo e il terzo movimento della Dance Suite.

Nell'arte di Alberto Chines c'è si genio ma non sregolatezza; è lecito in lui intravvedere un talento cristallino, dotato della rara qualità di far convivere il rigore con una fervente fantasia, che una disciplina inflessibile ha incanalati in un'espressività limpidissima. Questo CD d'esordio, lungi dall'essere una furbesca "compilation", si rivela la rammemorazione di un archetipo: la danza, sugo grumoso della vita come incarnazione della natura e instancabile generatrice di percorsi musicali. Un ottimo inizio discografico per Alberto Chines, che con questo meditato lavoro palesa l'intenzione di presentarsi al mondo della musica con delle eccellenti credenziali. Ma questo "Dances and Tales" potrà chiedersi l'ascoltatore, è più danza o racconto? Difficile fornire una risposta perentoria, categorica. I due elementi sembrano separarsi in certe composizioni, ma poi si riavvicinano fondendosi tra di loro. Ma, in definitiva, che importanza ha l'individuazione di un discrimine tra i due? Molto più semplicemente, questo non è un disco che invita a impelagarsi in analisi intellettuali, l'unica cosa da fare è lasciarsi andare al suo fascino magnetico. Se seguiamo questo dettame, ci ritroveremo all'interno di una circolarità danzante, un valzer di emozioni che ci conquisterà completamente.

 




Alfredo Di Pietro

Giugno 2020


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