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 Amiata Piano Festival 2017 - Dionisus - 26 Agosto Riduci

 

 

CONCERTO SINFONICO

Johannes Brahms (1833-1897)
Concerto per violino, violoncello e orchestra in la minore Op. 102
   1. Allegro
   2. Andante
   3. Vivace non troppo

Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Sinfonia N. 5 in do minore Op. 67
   1. Allegro con brio
   2. Andante con moto
   3. Scherzo: Allegro
   4. Allegro


Anna Tifu, violino
Silvia Chiesa, violoncello
Orchestra Senzaspine
diretta da Luciano Acocella

 



Non credo ci sia stata la volontà di replicare l'Amiata Music Master del 25 agosto, la cui eco non si era ancora spenta, quanto quella di proseguire un discorso già brillantemente avviato sulle orchestre giovanili. Questo il perché della nuova serata che si affaccia alla finestra il 26 agosto, protagoniste ancora le giovani leve, destinate a iniettare nuova linfa vitale nei circuiti concertistici. Di scena dunque i ragazzi dell'Orchestra Senzaspine, diretti dal maestro Luciano Acocella, e due grandi soliste: la violinista Anna Tifu e la violoncellista Silvia Chiesa, quest'ultima ricordiamo artista residente dell'Amiata Piano Festival. Tutti artisti che hanno generosamente speso le loro energie per un pubblico entusiasta, cimentandosi con un programma molto impegnativo: il Concerto per violino, violoncello e orchestra in la minore Op. 102 di Johannes Brahms e la Sinfonia N. 5 in do minore Op. 67 di Ludwig van Beethoven. Questa volta i candidati artisticamente "senior" erano due splendide carriere internazionali e il prestigioso podio di Luciano Acocella, un direttore che il 19 giugno scorso era al Chorégies d'Orange per un concerto in mondovisione, impegnato nella direzione di "Musiques en Fêtes" per molti milioni di telespettatori. Non nasce per caso il programma di stasera, ma rappresenta il risultato di un percorso cui il direttore artistico e la Fondazione Bertarelli tengono molto, bellissimo sotto tutti i punti di vista, reso oggi possibile dalla prestigiosa Fondazione insieme a tanti altri. Sono ragioni non trascurabili, che inducono Maurizio Baglini a rivolgere un sentito ringraziamento a tutto lo staff dell'azienda. In particolare al suo fantastico capo, Claudio Tipa, che con la Collemassari ha aiutato a diventare importanti festival e teatro.

Fra tutti i collaboratori c'è un amico che ama particolarmente la quinta sinfonia di Beethoven, capolavoro che è stato inserito nel programma di stasera per decisione di Maurizio Baglini, Silvia Chiesa e Luciano Acocella, pensando così di coronare il sogno che con Claudio e Maria Tipa era iniziato a sbocciare tempo fa e oggi ha trovato piena realizzazione. Acocella esprime parole di grande stima per il festival, delinea il profilo di una compagine che così bene ha suonato per noi stasera. Senzaspine più che un'orchestra è un progetto, nato dalla geniale idea di due suoi ex studenti, ora amici e colleghi: Tommaso Ussardi e Matteo Parmeggiani, attualmente presidente e vicepresidente dell'associazione. Un'iniziativa sorta quasi per gioco da un "scherzo", escogitato per il piacere di fare musica insieme, da questo punto di partenza si sviluppa una realtà bolognese diventata importante nel corso degli anni. Due intraprendenti giovani che hanno fatto tutto da soli, giorno dopo giorno, sino a diventare dei veri e propri "manager", decisi a sfruttare tutto lo sfruttabile. Hanno allora iniziato a lavorare intensamente sui "social", che sono la loro forza, costituito un organico formato da 160, 180 elementi. Il frutto di un impegno così grande non si è fatto attendere: oggi hanno una stagione a Ferrara, una a Bologna in collaborazione con l'Opera. Possiamo dire che hanno bruciato le tappe poiché, nel giro di soli quattro, cinque anni sono riusciti a fare tutto questo con la forza della loro volontà. Si sono guadagnati dal Comune di Bologna, che fortunatamente gli ha notati, la donazione di uno spazio bellissimo da gestire e che stanno curando in tutte le maniere possibili.

 



Come si consegue un tale successo? Lavorando sodo, trovando articolazioni trasversali, lanciando promozioni culturali, video e quant'altro. Questi due bravi direttori d'orchestra hanno frequentato l'Accademia Chigiana con grande merito. Non paghi, mossi da un forte spirito imprenditoriale, ancora oggi sono alla ricerca di strade, aiuto, gradatamente hanno fatto crescere l'orchestra. Nel tempo alcuni elementi sono andati via, qualcuno è diventato prima parte nel Teatro Comunale di Bologna, uno è violista alla Fenice di Venezia. Sono ormai diversi i ragazzi che, partendo da questo nucleo, sono pervenuti a risultati importanti, una gioia che però si mescola con il cruccio: purtroppo, questa fantastica orchestra/laboratorio ha così perso dei valenti strumentisti. Ognuno di loro crede fortemente nel progetto, tutti insieme si sono organizzati dividendosi il lavoro all'interno, c'è chi si occupa della logistica, chi anche del bar... Luciano Acocella rivolge commosse parole di gratitudine alla realtà amiatina: "Quattro, cinque anni fa i fondatori si sono ritrovati con i ragazzi dell'orchestra e hanno deciso, "post studium", di trovare una strada nel deserto che l'Italia oggi offre non soltanto ai giovani, ma anche ai musicisti affermati. Tuttavia, non tutto è deserto. Il Forum Bertarelli è una valle fiorita, una delle poche. Claudio Tipa, Maurizio Baglini e Silvia Chiesa hanno costruito insieme qualcosa di grande, forti di una Fondazione che dà la possibilità agli artisti di esprimersi per la gioia di farlo. Dal nulla hanno creato quello che oggi è un festival importantissimo, piano piano, giorno dopo giorno hanno portato avanti con determinazione un lavoro che oggi dà ottimi frutti, sino ad arrivare a questo di stasera". Poi, rivolgendosi a Claudio Tipa: "Sono sicuro che lei passerà alla storia".

Gli elementi che compongono l'orchestra Senzaspine, nonostante la giovane età, hanno la preparazione, la tecnica e la capacità stilistica per affrontare le difficili partiture a programma, ponendosi a un livello degno di veri e propri professionisti. Con felicità si sono espressi stasera, grazie agli sforzi di Luciano Acocella, maestro concertatore e mentore dei due soci fondatori. Una bella persona, come io amo definirlo dopo averci lungamente dialogato al telefono per un'intervista. Questo entusiasta della musica, al di fuori di fredde valutazioni tecniche, ha lasciato in me la sensazione di una strabordante umanità. Si potrebbero sintetizzare il fascino e le ragioni di questo concerto "rubando" un'affermazione che Alexander Lonquich ha fatto nel corso di una recente intervista: "La classica è viva ma siate audaci". E loro tutti lo sono stati nell'affrontare il gorgo romantico del Concerto per violino, violoncello e orchestra in la minore Op. 102 di J. Brahms. Un'opera che presenta molti punti d'interesse, innanzitutto nella concezione, che la avvicina a una forma del passato poco o per nulla praticata nel romanticismo: la sinfonia concertante. Completato nell'estate del 1887, è l'ultima creazione sinfonica del compositore, legata alla riconciliazione di Brahms con l'amico e grande violinista Joseph Joachim. I rapporti tra loro si erano bruscamente interrotti a causa delle burrascose vicende del matrimonio di quest'ultimo, dove Brahms si era schierato nettamente a favore di sua moglie. Il violinista era rimasto sorpreso e risentito da questa sua presa di posizione. Ma la profonda amicizia non si estinse e il riappacificamento dette buoni frutti: Joachim collaborò alla stesura dell'opera e Brahms il 23 settembre 1887 organizzò un'esecuzione privata presso il Kurhaus di Baden-Baden, i solisti furono Joachim e il violoncellista Robert Hausmann, direttore lo stesso Brahms.

 



Il debutto pubblico avvenne invece il 18 ottobre, a Colonia, con gli stessi interpreti. Brahms opera in questo capolavoro un allargamento di quella forma concertante molto praticata nel '700, sino al suo stravolgimento romantico se pensiamo a cosa era stata con Mozart e, più tardi, con il Triplo concerto di Beethoven. Di solido impianto sinfonico, l'Op. 102 propone il fitto dialogare tra violino e violoncello, la dialettica tra i due strumenti non si risolve in un beneducato conversare salottiero, ma assume toni accesi. Il palleggiamento dialettico assomiglia spesso più a un duellare che a un pacato dialogo. Dopo l'introduzione orchestrale, il caldo e penetrante suono del Giovanni Grancino di Silvia Chiesa erompe all'improvviso in una grande cadenza solistica, insolitamente collocata all'inizio e non alla conclusione del movimento, come di solito avviene. Una cadenza di rara intensità condivisa con il violino, poi i due strumenti proseguono in un serrato (e a tratti quasi violento) scambio d'idee, in autonomia e con un sostegno orchestrale ridotto all'osso. Due grandi strumentiste come Silvia Chiesa e Anna Tifu hanno dimostrato di avere l'autorevolezza necessaria per traghettare il pubblico verso un romanticismo denso e tempestoso, tipicamente "fin de siècle". Il movimento centrale ha un carattere intensamente lirico mentre il finale "Vivace non troppo" contrasta con il carattere severo del movimento iniziale, risulta brillante nella scrittura e dotato anche di un umorismo graffiante, dote che non mancava al grande compositore tedesco. Qui non rinveniamo le esasperazioni dialogiche presenti nell'Allegro, ma una maggior scorrevolezza d'insieme nell'intreccio fra solisti e orchestra.

Strutturato in forma di Rondò, rievoca quei motivi di carattere gitano che tanto erano cari al compositore. Nella lettura delle due soliste, se nel primo movimento prevalevano le istanze di una forte tensione emotiva e di un sostenuto botta e risposta, nel secondo c'è l'abbandonarsi a una distesa cantabilità, mentre nel terzo l'irrequietezza si scioglie nel brillante gioco del Rondò, nella spumeggiante alternanza tra il tema ricorrente e i vari episodi. E bisogna davvero avere nelle proprie corde l'abilità a manifestare le diverse anime che si agitano in questa composizione, così enigmatica e per certi versi anomala. La condotta dell'orchestra Senzaspine è tesa a riattualizzare questo capolavoro senza però mai tradire la sua essenzialità, aderisce con pertinenza stilistica al pensiero complesso di Brahms, il "progressivo" come lo definì in un bellissimo saggio Massimo Mila. Trovano pieno riscontro quelle sonorità dense, tendenti al crepuscolare, ricreate con tanta accuratezza dalla compagine bolognese. Emerge con inequivocabile chiarezza la grande sensibilità orchestrale di Luciano Acocella, il frutto dell'indefesso lavoro che ha portato innanzi con questi giovani. La sfida è vinta, avvenuto il "miracolo" del manifestarsi di una sorprendente maturità in una pagina non facile, oscillante tra i poli del drammatico, dell'introspettivo e del sarcastico. Brahms definì quest'opera "La mia folle, ultima composizione", nei fatti il Concerto per violino, violoncello e orchestra si è palesato all'Amiata Piano Festival in tutta la sua potente portata espressiva, ha impegnato a fondo le non comuni doti delle due valentissime soliste, come dell'intera orchestra, con la sua ricchezza di situazioni e strabiliante varietà di temi.

 



La Sinfonia N. 5 in do minore Op. 67 di Ludwig van Beethoven vive nell'immaginario collettivo come l'emblema del "destino che bussa alla porta", così almeno Anton Schindler definì il suo imperioso incipit. I suoi primi abbozzi risalgono al 1804, ma soltanto nella primavera del 1808 fu portata a compimento, sintomo di un percorso travagliato e non privo di ripensamenti. Come spesso avviene nel genio di Bonn, l'esasperato lavorio che sta dietro le sue opere non reca minima traccia delle sue titubanze nel lavoro finito, anche in questo caso ornato di un'eccezionale coerenza e compattezza. La Sinfonia fu dedicata al principe A. K. Razumovskij, mecenate e amico del compositore, e vide la "premiere" il 22 dicembre 1808 nel teatro viennese "An der Wien" sotto la direzione dello stesso Beethoven. L'impari lotta dell'uomo contro il destino, nella visione di un dualismo fatto di violenti contrasti, questo è il magmatico nucleo di una sinfonia dalla potenza devastante. Tuttavia, ai colpi violenti si susseguono momenti di lirica tenerezza in un andamento altalenante che rafforza il senso di netto dualismo che domina la composizione. Con un incedere implacabile, dalla forza incoercibile, il genio dell'autore riesce a rendere perfettamente la forza di un destino che travolge uomini e cose ma che, illuministicamente, non cede mai il passo alla disperazione. Tra atmosfere ora tensive, ora più distese, viene costruito un percorso che porta all'apoteosi finale. Un qualcosa che si ripresenterà, ingigantito, nel cataclismatico iter della nona sinfonia.

Eppure, chi pensa che questa sia un'opera eminentemente monolitica, priva di nuance, sbaglia. In virtù della raffinatezza di scrittura, degli sfaccettati frangenti espressivi, il processo pur ineluttabile dei quattro movimenti mostra al suo interno delle plaghe di profonda riflessione, provenienti da una natura si selvaggia e incontrollabile, ma anche capace di sublimi dolcezze: quella del multanime Beethoven. La stessa cellula ritmica dell'inizio, il bussare perentorio del destino, si ripresenta alla diciannovesima misura del terzo movimento, l'Allegro, trasfigurata nello spirito, complice l'intenso nitore dei corni qui assume il carattere di un lancinante e doloroso pulsare, privo della prorompente aggressività dell'incipit ma carico piuttosto di un'epica sofferenza. Dolore devastante che si mescola con celestiali tenerezze, ma anche l'arguta ironia è un tratto che non viene trascurato. In questo terzo movimento, a un certo punto succede che il clima di doloroso ripiegamento viene improvvisamente interrotto, sovvertito dal baldanzoso, quasi sfrontato fugato. Un piccolo "shock" per l'ascoltatore che inizia dalle veloci crome suonate da violoncelli e contrabbassi all'unisono, all'istante si viene sbalzati in un'atmosfera completamente diversa, praticamente opposta. Si profila nell'avvicendarsi degli episodi una poetica asciutta, essenziale, che poco o nulla concede all'enfasi retorica. Se sferzate devono essere, vere sferzate siano. Tutta la costruzione, in buona sostanza, viene edificata su quelle tre terribili crome in apertura, seguite da una minima con punto coronato: è questa l'incalzante cellula ritmica sulla quale si costruisce composizione.

 



Nulla deve turbare, nella concezione beethoveniana, l'incredibile solidità e unitarietà d'impianto, men che meno temi che siano perciò lontani da un'essenziale scarnezza. Allo stesso modo l'ascoltatore viene colto di sorpresa nel primo movimento, quando si presenta l'intenso e partecipato recitativo dell'oboe, lasciato improvvisamente solo nel suo canto desolato; un momento di stasi nella tempesta. Alfine sfolgora il trionfante finale, un catartico "Allegro" che spazza via il dolore con la sua forza incontenibile: è il trionfo dell'uomo sulle impenetrabili trame del destino, la vittoria della luce sulle tenebre. Come in Brahms, anche in Beethoven l'orchestra Senzaspine traccia delle convincenti coordinate sonore, riporta alla luce un Beethoven già permeato di un romanticismo ancora di là da venire, seppure alle porte. Si tratta di uno "Sturm und Drang" in embrione ma la cui pulsazione è presente, ben vivificata da questi giovani orchestrali e dal valentissimo Luciano Acocella. Non è facile mantenere la coerenza stilistica nel mentre si mettono allo scoperto i germi precursori di un'epocale rivoluzione dell'arte. È facile perdere le staffe nell'evidenziare le avvisaglie di quel sentimento dell'irrazionale che scompiglia le fila del classicismo. Ma qui non avviene... La nostra orchestra riesce a tenere salde le redini del discorso musicale, scompigliando parimenti il pregiudizio che "giovane" non possa fare il paio con "maturo". Questi ragazzi sono l'avvenire della musica, come dire il futuro di noi tutti. Due i bis concessi al pubblico alla fine del primo e secondo tempo della serata: la Passacaglia per violino e viola (violoncello) di Johan Halvorsen, basata sulla Passacaglia della suite in sol minore HWV 432 di Georg Friedrich Händel e una sfavillante Ouverture da "Il barbiere di Siviglia", che scioglie la forte tensione creata dal maglio beethoveniano.


INTERVISTA A LUCIANO ACOCELLA

 



Alfredo Di Pietro: Maestro, nel 2013 due amici, i direttori d'orchestra Tommaso Ussardi e Matteo Parmeggiani, ebbero l'idea di dar vita all'orchestra sinfonica dei "Senzaspine". Potrebbe raccontarci il percorso umano e artistico di questo ensemble, a partire dal curioso nome?

Luciano Acocella: Si tratta di un progetto nato in maniera molto spontanea. Con semplicità è stato costituito il primo nucleo di quest'orchestra, il quale ha iniziato a esibirsi in maniera completamente gratuita, per il piacere di farlo, in luoghi anche non deputati alla musica. All'inizio, per farsi conoscere facevano dei "flash mob" nei supermercati, s'inventavano addirittura delle processioni cittadine suonando su dei carri trainati da biciclette. Hanno cercato di far vivere alle persone di Bologna la musica sotto un aspetto diverso, meno "serio", meno accademico, meno impegnativo: questa è stata una delle loro forze. I due direttori si alternavano sul podio nei concerti, cosa che oggi può risultare bizzarra. In realtà la storia ci dice che lo fece anche Mahler con Felix Weingartner, quando fu invitato a eseguire la sua quarta sinfonia ad Amsterdam. I due direttori, infatti, in quell'occasione fecero una doppia esecuzione della sinfonia, dove Mahler salì per primo sul podio e successivamente lo fece Weingartner, allora direttore del Concertgebouw‎. Il grande sinfonista tardoromantico ripeté l'esperimento anche in altri frangenti con Richard Strauss. A quei tempi alternarsi sul podio non era una cosa tanto stravagante, come oggi potrebbe apparire. I Senzaspine scanzonatamente, togliendo gravità accademica all'evento, prendendosi in giro e facendo il verso a se stessi, sono riusciti tramite il repertorio classico a portare un vivo interesse, a intercettare un nuovo pubblico all'interno della città di Bologna. Hanno ottenuto un teatro, il Duse, dove tenere i concerti, che sono sempre molto particolari. L'Orchestra Senzaspine è strettamente legata ai Social Network, strumento che interpretano perfettamente. Twitter e Facebook, che io utilizzo in maniera piuttosto residuale, per loro invece rappresenta uno strumento fondamentale. Da quanto ne so io, il nome "Senzaspine" non fa riferimento all'assenza di spine, come in certi pesci, anche se potrebbe far richiamo pure a questo significato, ma implica il fatto di non essere attaccata a nulla. In tal caso denuncia la sua libertà, l'assenza di legami. O, ancora, può voler dire l'essere priva di un qualcosa che possa pungere, dare fastidio. In verità è un nome nato fondamentalmente da quest'ultima interpretazione. Per saperne di più bisognerebbe comunque intervistare gli stessi fondatori, che sono stati miei assistenti e che ho sempre seguito da vicino, pur non essendo mai intervenuto in nessuna delle loro scelte. Hanno fatto tutto quanto da soli, nel bene e nel male, hanno preso in perfetta autonomia ogni decisione. Questo è un punto d'orgoglio per loro. Qui all'Amiata Piano Festival, per la prima volta sono stato invitato a dirigerli. Anche nei momenti in cui c'era la possibilità di entrare molto più a contatto con loro, sono volutamente stato lontano per non influenzarli con le mie idee. Quelle che hanno i Senzaspine sono fresche e, tutto sommato, differenti dalle mie, quelle cioè di un musicista che da trent'anni svolge questo mestiere. Hanno un'interpretazione della cultura e dell'arte, anche trasversale, davvero molto moderna, intesa pure come proposta di comunicazione linguistica. Cercano spazi artistici di ogni tipo: associati alla poesia, al balletto, alle immagini, alla realtà virtuale. Questo si profila quindi come un progetto globale, sul quale si stanno ancora orientando perché, sono talmente tanti i temi trattati, che il loro attuale dubbio riguarda il rischio di perdersi nel magma. I Senzaspine sono una fucina d'idee, delle quali una parte si realizzerà e un'altra no, così come dev'essere una scelta di tipo artistico-imprenditoriale.

ADP: Lei conosce il mondo: nel 1996 è stato premiato ai Concorsi "Prokofiev" e "Mitropoulos", da lì ha avviato un'intensa attività che l'ha portato a dirigere in anche in Francia, Spagna, Belgio, Grecia, Danimarca, Stati Uniti, Giappone, Cina, Corea e Russia. Da direttore lei avrà certamente assorbito, recandone memoria, la reazione dei vari pubblici. Che cosa ha di speciale quello italiano? Quale il suo tratto caratteristico, se ne ha uno?

LA: Faccio una piccola introduzione. Ho riiniziato a dirigere in Italia da pochissimo in quanto per tanto tempo mi sono dedicato ai palcoscenici francesi, belgi, spagnoli. La Francia mi ha dato la possibilità di esprimermi, lì ho fatto più di quattrocento concerti, opere, sono stato direttore musicale dell'Opéra de Rouen in Normandia per quattro anni. Ho anche diretto nel nostro paese, però episodicamente, come per esempio alla Fenice di Venezia. Solo negli ultimi due, tre anni ho ripreso a dirigere in Italia in maniera però dosata, prudente. Per questo motivo la realtà del pubblico italiano inizio a percepirla oggi. La differenza tra pubblico europeo e giapponese, in relazione a quello che gli italiani portano dal punto di vista artistico, è la vera e propria venerazione che il secondo ha per l'artista italiano, soprattutto i cantanti. Dopo lo spettacolo, intorno al teatro si creano file lunghissime di giapponesi ordinati che attendono di prendere l'autografo, noi seduti ai tavolini. Ci portano dei regali di ogni tipo, cioccolato, bonbon, a qualcuno una volta hanno regalato anche il pregiatissimo e costosissimo manzo di Kobe. Hanno voglia del contatto umano, quasi fisico con noi artisti italiani, che siamo talmente lontani dalla loro cultura da essere venerati come degli Dei o dei miti. In Corea avviene più o meno la stessa cosa, confermando l'approccio del pubblico orientale. Quello europeo, in generale, si mostra più esigente; bisogna tuttavia fare una distinzione tra lo spettatore del genere sinfonico e del lirico. Il pubblico dell'opera lirica, si sa, è molto passionale, a volte polemico, bada alla bellezza della voce, all'intensità degli acuti, diciamo che, ancora oggi, si vuole agganciare alla tradizione belcantistica. C'è la gioia, la voglia di sentire le belle linee melodiche, erroneamente si giudica un cantante soltanto da un acuto, che se magari viene fatto male ci si scorda subito che prima ha cantato delle frasi meravigliose. Per certi versi il pubblico italiano è anche un po' ingeneroso. Quello francese, che conosco meglio, come anche lo spagnolo è sanguigno nella lirica, cosa da considerarsi positiva perché è sintomo di gioia, manifesta un grande calore, conseguenza del ricevere una bella musica, che si esterna anche con l'abbraccio fisico. L'artista tutto sommato è conscio di ricevere un giudizio "sentito", proprio perché ha a che fare con spettatori esigenti. Quando c'è il successo, c'è davvero, non si discute. Anche il francese dimostra molta passione, sono un popolo di "comédien", tradizionalmente legati alla commedia, quindi amano apprezzare l'artista sul palcoscenico per sue qualità attoriali, perché interpreta la storia in maniera profonda, viscerale. È un pubblico che apprezza molto questo lato. Vado spesso anche in Russia, dove c'è una cultura musicale enorme. In generale, la mia esperienza mi porta a dire che il pubblico italiano, quando gli si propone della buona musica fatta bene, regala delle belle soddisfazioni.

ADP: La invito a un ricordo: quando ha diretto per la prima volta un'orchestra, cosa ha provato nell'impugnare la bacchetta e sentire la risposta degli orchestrali?

LA: Togliendo il periodo di apprendistato accademico del conservatorio, il primo vero concerto tutto mio lo feci in Italia, nelle Marche, nel 1991-92. Si trattava di un'orchestra rumena perché iniziai a dirigere molto in Romania, Polonia e nei paesi dell'est, non essendo riuscito a trovare delle concrete possibilità nel nostro paese. Quest'orchestra poi, visto che avevo fatto un buon lavoro, mi ha invitato più volte nella sua città e da lì sono venuti fuori tantissimi altri concerti. Per quattro, cinque anni ho diretto molto in Romania. In generale, una risposta vera non gliela so dare, anche ieri sera ho provato una bella sensazione. Non è retorica, ma quando tengo un concerto, o anche una replica, per me è come se fosse sempre la prima volta quindi, dimentico le emozioni provate magari il giorno prima. All'esordio della mia attività direttoriale ho fatto un concerto con un programma tutto mio, avevo un pubblico che applaudiva, un'orchestra che suonava insieme con me, ero il "leader", mi sentivo interprete, avvertivo la sensazione d'iniziare a fare finalmente qualcosa di buono, d'importante. Ho questi ricordi abbastanza emozionanti, di suggestioni che si perpetuano, si ripetono ma sono sempre un po' le stesse, magari con sfumature diverse.

ADP: Potrebbe descriverci il suo carattere e dirci come questo ha influito sulla scelta dei repertori e del suo "modus interpretandi"?

LA: Io credo che più di carattere si debba parlare di anima. Parto da un presupposto: a me piace tutta la musica bella, soprattutto la classica. Il mio spirito mi porta a essere più incline verso il romanticismo e il tardo-romanticismo, da Schumann, Mendelssohn sino a Mahler. Nel repertorio operistico parliamo di Puccini e Verdi, il tardo Verdi che io adoro. Tuttavia, nella vita capita d'iniziare a fare una cosa per ritrovarsi a farne un'altra, così ho diretto tanto Rossini, che amo moltissimo, al Festival Rossini di Wildbad e altri festival rossiniani. L'ho frequentato intensamente in Francia, dove mi definiscono un esperto di questo compositore. Alla fine sono dotato di un'anima che si contraddice, mi spinge verso un autore ma, se mi viene proposto qualcosa d'altro, lo accolgo con soddisfazione. Ho quindi diretto molto nel genere belcantistico, Mozart, Beethoven, quest'ultimo forse il più grande compositore che ci sia mai stato, il più completo, il più ricco, colui che arriva alle soglie dell'anima di tutto il mondo con facilità. Nell'epoca di transizione tra la fine del classicismo e l'inizio del romanticismo si è collocato questo cardine che ha dato la spinta alla nascita del grande sinfonismo, ha dato la possibilità ai grandi sinfonisti di fine '800 come Brahms, Mahler e Strauss, di poter ingigantire quelli che sono stati i germi delle architetture sinfoniche. Esistono quindi varie anime, io sono sicuro di averne una, la quale però ogni tanto si divide.

ADP: È una domanda che mi piace porre sempre quando intervisto un direttore d'orchestra, anche a costo di risultare monotono, perché mi sembra di grande interesse: nella direzione quanto conta l'istinto e quanto un metodico studio?

LA: L'istinto è quello che si esprime dopo un metodico studio, nel senso che non può manifestarsi senza conoscere il pezzo, averlo posseduto dal punto di vista musicale e tecnico. La parte istintuale viene fuori nel momento dell'esecuzione, nella concretizzazione dello studio a monte. Credo che siano essenziali tutti e due, io preferisco che ci siano entrambi poiché non si può dirigere un pezzo senza conoscerlo in profondità. Trovo abbastanza facile eseguire il repertorio a memoria, ma questo non viene per caso perché dietro c'è un serio studio.

ADP: Lei dimostra di avere una particolare attenzione per i giovani musicisti. Quanto si sente "contagiato" dall'entusiasmo che dimostrano nell'affrontare una partitura? Quanto ha imparato da loro nello scambio umano e professionale?

LA: Non voglio rischiare di essere retorico elogiando i giovani e considerandoli la risorsa del mondo. Esistono vari livelli di giovinezza per tutti noi e a tutte le età. Quello che mi entusiasma di questi ragazzi è che hanno una grande purezza nell'anima. Non sono ancora corrotti da ciò che poi diventa routine lavorativa perché poi, quando si entra nell'ambito delle orchestre professionali, si considera il suonare non più l'espressione di un'arte ma un compito. C'è il rischio reale di cadere in questa trappola. Noi, con tutto il rispetto, non andiamo la mattina in fabbrica e neanche in banca, ma ci rechiamo in un luogo dove si crea qualcosa. I ragazzi hanno questa "innocenza", sono tutti smaliziati beninteso ma conservano la freschezza e la voglia di confrontarsi, soprattutto in un mondo che non so quanto li premierà e se premierà tutti come desiderano. In questo momento sognano e io partecipo alle loro aspirazioni. A me piace sognare e voglio fargli sognare. Soltanto se si ha questo spirito si riescono poi a realizzare i propri progetti, sono animati dalla voglia di diventare, di arrivare: è questo che più mi appassiona di loro. Ciò che ricevo è la risposta alla mia proposta. Ieri sera sono stati naturalmente entusiasti del concerto, e anche io, ma se non avessi dato non avrei ricevuto. Si tratta quindi di un mutuo scambio tra me, con il mio livello artistico e la mia età, e loro. Ognuno dà il meglio per quello che è possibile in quel momento.

ADP: Ieri sera il pubblico dell'Amiata Piano Festival ha potuto apprezzare le sue qualità direttoriali e quelle dell'orchestra. È emerso un Brahms dalle tinte intense, sontuose, dal bellissimo impasto timbrico. Questa osservazione mi da il destro per porle una domanda sul "suono" che l'orchestra deve avere, cioè quel particolare carattere timbrico che la rende riconoscibile da altre. Ritiene che questo sia un elemento importante?

LA: Si parla molto del suono dei Wiener, dei Berliner. Questo naturalmente è un dato distintivo nel momento in cui c'è un'orchestra che ha diecine di anni di tradizione, un'esperienza anche centenaria, dove non solo viene maturato un vasto repertorio ma gli stessi musicisti sono scelti tramite concorso in relazione alla qualità di suono che possono esprimere nella compagine in cui opereranno. Il suono dei Wiener Philharmoniker è molto tradizionale, quello dei Berliner è cambiato da quando è venuto Abbado e dopo di lui Rattle. Parliamo di orchestre che non solo hanno delle qualità immense ma anche una ben marcata progettualità. Per quanto riguarda l'orchestra Senzaspine, in via di formazione dal punto di vista del repertorio e dell'esperienza, i rapporti interni devono ancora essere completamente trovati. Io ho fortemente cercato una certa impostazione, lei l'ha avvertito e la ringrazio di aver colto quest'aspetto, scegliendo una strada beethoveniana non asciutta, non completamente classica. Una sinfonia terminata di comporre nel 1808 e che apre le porte al romanticismo, ho pensato d'interpretarla guardando al di là del periodo classico, senza però "stuprarne" le relazioni timbriche e dinamiche in un'oculata scelta di direzione fraseologica. Da un po' di anni purtroppo, o per fortuna, c'è questa idea di riportare la musica alla tradizione esecutiva dell'epoca che, per'altro, nessuno di noi ha mai ascoltato, contemplata in qualche testo, differente in Italia, Germania e altri paesi. La cosiddetta prassi esecutiva considerata nel trattato di Quantz o di Leopold Mozart. In realtà, c'è questa voglia che porta talvolta a essere incomprensibili, noi utilizziamo orchestre moderne, tecnicamente evolute, io stesso intendo sfruttare al meglio le possibilità che mi vengono offerte dalle moderne compagini. È chiaro che all'interno della preparazione di un'esecuzione si cercano dei percorsi timbrici e sonori che mettano in evidenza delle frasi, degli accompagnamenti. In ogni caso si cerca di rendere la totalità della scrittura.

ADP: Un'ultima domanda maestro. Sempre riferendomi al programma di ieri sera, ho assistito a una quinta sinfonia beethoveniana travolgente ma anche sorprendentemente accorta. Nell'immaginario collettivo questo capolavoro viene considerato spesso come titanico, monolitico. Ieri invece è stato sottolineato anche il suo aspetto più sottile, le preziose finezze linguistico-strumentali che si nascondono nelle sue pieghe. Nei momenti solistici, in certi passaggi più rarefatti, si poteva cogliere la solitudine dell'uomo ma anche l'ironia e un baldanzoso spirito del gioco. C'è ancora molto da scoprire anche nelle opere più popolari e conclamate?

LA: Certamente. Diceva il mio professore di storia all'università che questa non è statica ma dinamica. Noi possiamo conoscere la battaglia di Caporetto, in quale data e in che maniera si è svolta ma, al momento di ritrovare un documento storico particolare riguardante un episodio, l'opinione che di questa si ha può cambiare. La storia è in continua evoluzione e viene interpretata secondo le contingenze e l'epoca. Questo succede anche nella musica, la quale è scritta nel nostro caso da Beethoven. Di alcuni suoi manoscritti non è rimasta traccia, della seconda sinfonia per esempio, della quale abbiamo solo l'edizione a stampa. Ciò che è stato scritto va riletto, il segno (e non solo quello) va sempre interpretato storicizzandolo, le strade da seguire sono perciò diverse. Ancora oggi c'è tanto da scoprire e da cercare. La quinta sinfonia da tutti è stata interpretata come la pulsazione del destino ineluttabile, oppure anche il palpito pessimistico della vita beethoveniana. Come ha detto lei, si tratta un'opera dall'architettura monolitica, strutturalmente coerente poiché il motto iniziale si ripete nello scherzo, e pure continuamente nell'ultimo movimento. È innovativa e unitaria da questo punto di vista, la prima in assoluto dove si usano i tromboni, ma quello che è sorprendente di questo Beethoven è che alla parte drammatica iniziale segue subito un secondo movimento in la bemolle maggiore cantabile, elegiaco e anche di semplice struttura formale. L'alternanza con uno scherzo cupo, inteso molto diversamente da quello, per esempio, della terza sinfonia o della settima, fa leva su un'enunciazione dei corni quasi evocativa nella sua ripetitività, come in un continuo ritorno verso la tristezza. Sorprendente è pure il fatto che la tonalità d'impianto sia il do minore, ma il finale è in do maggiore, vale a dire la sagra, l'epopea della tonalità primordiale in cui possiamo rilevare la gioia espressa nella maniera più semplice, tramite la tonalità più solare, più limpida, più protozoica se vogliamo. In questa composizione leggo un'alternanza di anima cupa, romantica, di tristezza verso la vita, verso l'uomo. Quando la compose, lui aveva già scritto il famoso testamento Heiligenstadt, in cui dichiarava al mondo la sua sordità, in un periodo tra l'altro travagliato da problemi con il nipote Karl e la cognata. Il finale di questa sinfonia esplosiva apre cronologicamente la strada, secondo me, alla sesta sinfonia, poetica, bucolica, dai toni campestri. È un Beethoven che esprime più anime e l'interprete non può fare altro che approfondirne la conoscenza cercando nuovi percorsi da battere, senza tuttavia stravolgerne i contenuti. Questa ricerca deve essere estesa all'autore, alla sua vita, al repertorio cameristico, le sonate per pianoforte, i quartetti, i trii perché tutto quanto partecipa alla formazione e determina un'anima.

Alfredo Di Pietro

Settembre 2017


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