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 Amiata Piano Festival 2017 - Baccus - 24 Giugno Riduci

 

 

MUSICA DA CAMERA

Claude Debussy (1862 - 1918)
Quartetto per archi in sol minore Op. 10
   1. Animé et très décidé
   2. Assez vif et bien rythmé
   3. Andantino, doucement expressif
   4. Très modéré


Sonata per violino e pianoforte in sol minore
   1. Allegro vivo
   2. Intermède: Fantasque et légere
   3. Finale: Très animé



Ernest Chausson (1855 - 1899)
Concerto per violino, pianoforte e quartetto d'archi in Re maggiore Op. 21


Sonig Tchakerian, violino
Andrea Lucchesini, pianoforte
Quartetto Noûs:
Tiziano Baviera, violino
Alberto Franchin, violino
Sara Dambruoso, viola
Tommaso Tesini, violoncello



Non voglio entrare in dettagli tecnici di acustica degli ambienti chiusi. Parrebbe eccessivo nell'economia di una recensione concertistica dilungarsi nella dissertazione di parametri come il tempo di riverberazione (T60) e dei principali indici di qualità acustica (C50, D50, STI, RaSTI). Arabo antico per i non addetti ai lavori, sono tuttavia importantissimi per la qualità di quanto sentiamo, in particolare per la percezione dell'articolazione, cioè la chiarezza, pulizia (da cui la ricchezza di dettaglio) con cui ogni suono, dal livello di pressione più flebile al più devastante, viene avvertito. Fuori dai tecnicismi, l'effetto di questi parametri è sensibilissimo all'orecchio, attraverso varie gradazioni si può andare da un suono che pittorescamente potremmo definire impastato, confuso, dovuto a uno scarso controllo di risonanze e riflessioni, a uno troppo secco, asciutto e povero di tridimensionalità. Non ho fatto misurazioni con una sorgente dodecaedrica nel Forum Fondazione Bertarelli ma l'orecchio in tali occasioni è il miglior giudice: tutto lascia presagire che l'acustica di questo bellissimo auditorium rasenti la perfezione, né troppo assorbente né troppo riverberante, consente di cogliere sia il "pppp" di un rullante che la potenza del FFFF di un'orchestra sinfonica. Elemento irrilevante? Niente affatto! Può essere che qualcuno sogghigni, come succede per le fisime dei fanatici dell'Hi Fi, eppure non solo la qualità dell'interprete è importante, ma anche quella del suono che ci raggiunge.

 



Ecco perché mi piace ribadire tutta la mia disapprovazione per le clip fatte con i telefonini durante i concerti, nella stragrande maggioranza dei casi di una pessima qualità acustica. Di certo una mancanza assoluta di rispetto per l'artista sul palco. Ma non divaghiamo... L'argomento principale della terza serata di Baccus è la musica da camera, e delle più raffinate possibili. È un genere che, come dice la parola stessa, è pensato per un ristretto numero di esecutori, sia strumentali che vocali, il quale trova collocazione in ambienti non grandi (delle "camere" appunto), atti ad accoglierli. Ritornando alla mia parentesi iniziale, potrebbe sembrare sproporzionato accogliere un quartetto d'archi o un sestetto in una sala da concerto così grande come il Forum Bertarelli. Eppure, proprio in virtù della sua ottima acustica, questa scelta non si rovescia in un "minus" di qualità percepita. Un'architettura funzionalmente ben progettata favorisce una resa naturale di strumenti e voci. Per dimostrarlo, Maurizio Baglini a un certo punto allontana il microfono dalla sua bocca, lo segue nell'esperimento Vittorio Introcaso. Nulla si perde di quanto dicono, anzi, non devono alzare più di tanto il tono e la loro voce se ne avvantaggia in termini di naturalezza, perde la tipica nasalità data dall'impianto di amplificazione. Tanto di cappello allora al lavoro fatto dai tecnici per rendere confortevole, anche acusticamente, questo auditorium, nato per migliorare un progetto culturale mirato alla qualità e non alla quantità.

 



Il progetto di questa serata nasce in un luogo lontano dalla Maremma grossetana, il Teatro Olimpico di Vicenza, una delle meraviglie che c'invidia tutto il mondo, condiviso poi dall'Amiata Piano Festival. Si può parlare quindi di coproduzione vera e propria tra i due enti, segno che, alla larga da protagonismi assoluti, quello che qui conta è proprio il valore di quanto proposto. Variegato nell'ampiezza delle formazioni cameristiche in gioco (duo, quartetto e sestetto), lo è non solo da questo punto di vista: il palco del Forum diventa rampa di lancio dell'incontro tra i quattro giovani del Quartetto Noûs (Tiziano Baviera, violino - Alberto Franchin, violino - Sara Dambruoso, viola - Tommaso Tesini, violoncello) e due artisti già affermati internazionalmente, giovani, ma non tanto come i componenti del Quartetto Noûs. Il nostro Quartetto nasce nel 2011 all'interno del Conservatorio della Svizzera italiana di Lugano. L'antico termine greco nel nome ha il significato di "mente", ma anche ispirazione e capacità creativa. Importanti sono le sue frequentazioni, con l’Accademia “Walter Stauffer” di Cremona, la Musik Akademie di Basilea, in seguito si perfezionano presso l’Escuela Superior de Música "Reina Sofia" di Madrid e l'Accademia Musicale Chigiana di Siena. Studia inoltre alla Musikhochschule di Lubecca. Conquista in breve tempo un ricco bottino di premi: il primo riconoscimento di rilievo risale al 2011, quando vince il primo premio al Concorso Internazionale "Luigi Nono" di Venaria Reale.

 



Nel 2013 è stato quartetto in residence al Festival Ticino Musica di Lugano. Segue nel 2014 la vincita del XXI "Concorso Internazionale Anemos" di Roma, nel medesimo anno gli viene conferita la menzione d'onore nell'ambito del "Sony Classical Talent Scout" di Madesimo. Ma è il 2015 l'anno del grande "exploit". Il Noûs vince d'infilata una borsa di studio grazie all'Associazione "Le Dimore del Quartetto" e all'Associazione Dimore Storiche Italiane, gli viene riconosciuta un'altra importante borsa di studio dalla Fundatión Albeniz di Madrid. Si aggiudica il Premio "Piero Farulli", assegnato alla migliore formazione cameristica emergente nell’anno in corso, nell’ambito del XXXIV Premio "Franco Abbiati", che è il più prestigioso riconoscimento della critica musicale italiana. Riceve il Premio "Arthur Rubinstein - Una Vita nella Musica" 2015 dal Teatro La Fenice di Venezia. Si moltiplicano le sue esibizioni, alcune per importanti realtà musicali italiane come la Società del Quartetto di Milano, l’Unione Musicale di Torino, gli Amici della Musica di Firenze, Bologna Festival e Musica Insieme di Bologna, la Società del Quartetto di Bergamo, la Società Veneziana di Concerti, l'Associazione Chamber Music di Trieste, l'Associazione Musicale Lucchese, I Concerti del Quirinale a Roma, lo Stradivari Festival di Cremona, le Settimane Musicali di Stresa. Allaccia collaborazioni con musicisti già largamente celebrati nel panorama concertistico mondiale, nomi come Tommaso Lonquich, Andrea Lucchesini, Alain Meunier, Giovanni Scaglione, Sonig Tchakerian. Inviti a suonare all'estero provengono da Germania, Svizzera, Francia, Inghilterra, Spagna, Cina e Corea.

 



Notizia recente, risalente a un paio di mesi fa, è il concerto tenuto ad Aprile a Seoul presso l’IBK Chamber Hall del Seoul Arts Center. Il programma di sala della terza serata di Baccus è giocato sull'alternanza di opere che si muovono nell'ambito del raffinatissimo, quanto numericamente esiguo, repertorio cameristico francese a cavallo tra '800 e '900. Quattro sono i nomi che spiccano in questa produzione: Frank, Fauré, Debussy e Ravel. Unico cimento di Claude Debussy nello specifico genere è il Quartetto per archi in sol minore Op. 10, scritto fra l'estate del 1892 e il febbraio del 1893, ai tempi della sua amicizia con Ernest Chausson. Su tutti e quattro i movimenti aleggia uno stesso tema che viene caleidoscopicamente trasfigurato dall'enorme abilità coloristica dell'autore. Come sempre avviene in opere protese decisamente verso il futuro (e nel campo armonico Debussy si rivelò essere un vero rivoluzionario), partorite dalla mente di forti personalità poco disposte a uniformarsi a procedimenti scolastici, questo quartetto alla sua "premiere" fu accolto piuttosto freddamente, lo stesso amico Ernest fu abbastanza critico nei suoi confronti. Una voce fuori dal coro fu quella però di Paul Dukas, che intuì con altri rarissimi critici l'assoluta originalità di quest'opera. Fatto sta che Debussy non proseguì sulla strada del quartetto, rimanendo questo il suo unico esempio in tal campo. Già però alla seconda esecuzione, nel 1894 a Bruxelles, s'inizio a riconoscerne il valore. Nel primo movimento "Anime et très decide" si afferma quel tema che poi riconosceremo nei movimenti seguenti, il suo sapore ancestrale scaturisce dall'utilizzo, frequente nel compositore simbolista, dall'antico modo frigio come di altri modi inconsueti.

 



Molto originale il secondo movimento, "Assez vif et bien rythmé", uno scherzo dal carattere ostinato dove si fa abbondante uso del pizzicato, con probabili influenze russe. Nell'"Andantino, doucement expressif" emerge un'atmosfera rarefatta, spezzata improvvisamente dall'episodio centrale più mosso (Un peu plus vite). Come nel tempo precedente, gli effetti coloristici vengono creati da peculiari tecniche strumentali, in questo caso non c'è il pizzicato a rendere effervescente la ritmica, ma l'uso della sordina, che rende il suono quasi evanescente, ricreando quel senso di grande dolcezza voluto da Debussy. Il finale "Très modéré" si apre lentamente, in modo sofferto, per poi progressivamente animarsi in un fraseggio quasi diabolico; uno schema espressivo che si ripeterà nel corso del movimento nella sperimentata sequenza di un inizio sornione, il successivo e progressivo animarsi che porta a un apice drammatico/dinamico e il ritorno alla calma accompagnato dal decrescere della dinamica. Ci troviamo di fronte a un capolavoro, dimostrazione dell'enorme maestria compositiva del genio francese, un'opera che si consuma in un continuo fluttuare di atmosfere, oscillanti tra una sorta di assorto solipsismo e l'esplosione di una drammatica teatralità. Una profonda mestizia pervade la Sonata per violino e pianoforte in sol minore, composizione che non può essere decontestualizzata dal frangente storico che attraversa. Lo spettro della prima guerra mondiale e la malattia che condusse Debussy alla tomba sono due elementi cardine per la comprensione di un'opera che rivela la desolazione di un mondo che sta irrimediabilmente mutando.

 



Tratti diabolici frammisti a profondità abissali, una spiritata alternanza che possiamo trovare, mutatis mutandis, anche nella produzione sinfonica di Gustav Mahler. L'andamento episodico dei tre tempi tende piuttosto all'epigraficità, elemento precipuo della produzione estrema del musicista francese; di tre anni addietro sono le "Six épigraphes antiques per pianoforte a quattro mani" in cui viene gettato questo seme. Una brevità che condensa in una stoccata le fulminanti intuizioni, confessando un insopprimibile anelito alla vita. Quest'opera fa parte di un ampio progetto che prevedeva la composizione di sei Sonate per diversi strumenti, Debussy purtroppo non riuscì a completarlo, delle sei preventivate solo tre videro la luce: una per violoncello e pianoforte, una per flauto, viola e arpa e infine quella che, meravigliosamente, è stata eseguita stasera. Un orgoglioso omaggio alla musica francese, come si desume dalla firma apposta sulla composizione "Claude Debussy, musicien francais". Tre movimenti enigmatici, mobilissimi nello svolgimento, portati avanti con fatica (soprattutto il "Finale: Très animé"), sotto i continui solleciti dell'editore Durand. Tuttavia, ancor prima della musica, è lo stesso autore che ci dà la chiave di volta per la sua comprensione, quando dice: "...questa Sonata è stata scritta per accontentare il mio editore che mi era sempre alle calcagna. Voi che sapete leggere tra le righe troverete qui le tracce di quel demone della perversità che ci spinge a scegliere idee che bisognerebbe, invece, lasciare da parte...".

 



Ancora in un altro passo: "Diffidate delle opere che sembra siano state composte sotto un cielo azzurro e sereno, perché spesso accade, invece, che esse siano rimaste a lungo stagnanti nelle tenebre di un cervello lugubre e malinconico...". Ultimo brano in programma è stato il Concerto per violino, pianoforte e quartetto d'archi in Re maggiore Op. 21 di Ernest Chausson, compositore "post-romantico", allievo di Jules Massenet e César Franck, a metà strada tra Fauré e Debussy. Va dato atto all'Amiata Piano Festival di aver portato al pubblico, con questo che di fatto è un sestetto, una pregevole musica da camera oggi poco o per nulla eseguita. Questa ponderosa composizione attrae per l'idea, presente già in embrione nel rinascimento e poi sviluppata nel XIX secolo (di cui Frank fu un convinto sostenitore) della "forma ciclica". Una tecnica di costruzione in cui uno stesso materiale tematico è presente in qualità di elemento unificante in più sezioni o movimenti di una composizione. Si tratta di un'esperienza musicale della quale l'ascoltatore si trova completamente imbevuto, un ininterrotto flusso musicale lo avvolge costantemente come in un caldo alveo, senza particolari traumi o soprassalti, dove non spicca tanto il tema o il suo contrasto con altri. Se è vero che la perfezione non è di questa terra, è altrettanto vero che tutti i musicisti intervenuti in questa "lezione" di altissimo camerismo ci sono andati molto vicino. Il giovane Quartetto Noûs, nonostante la giovane età, ha dimostrato una completa padronanza stilistica e questo ha un valore tanto maggiore se si pensa alle difficoltà che in tal senso pone un autore come Debussy.

 



Con estrema concentrazione ha dato sfogo alla sua forza tranquilla, sempre eccellendo in misura, equilibrio tra le parti ed eleganza in un'impeccabile visione d'insieme. Dei due "senior" mi ha sorpreso la straordinaria attitudine alla musica cameristica che ha dimostrato Andrea Lucchesini, referenza assoluta del pianismo mondiale, non nuovo alla ribalta dell'Amiata Piano Festival poiché era già venuto qualche anno fa, quando i concerti si davano ancora nella Sala Musica Collemassari del Podere San Giuseppe. Sempre calibratissimo nei suoi interventi, nell'uniformare la sua dinamica a quella degli altri musicisti, rispettoso nell'inserirsi in un discorso musicale di cui fa parte, ma dal quale esclude ogni minimo accenno di protagonismo da parte sua. Un'intesa che si presagisce già dal modo di porsi sul palcoscenico, quel beneducato incrociarsi di sguardi prima di un attacco. Sul palco si manifesta un armonioso "balance" d'insieme in un'interpretazione priva della sia pur minima sbavatura, per'altro giustificabile in una performance dal vivo. Sonig Tchakerian è una vera forza della natura, si presenta scalza sul palco, non credo per una trovata coreografica quanto per avere un intimo contatto con la terra. La confidenza che questa sorprendente artista ha con il suo strumento è totale, quasi un naturale prolungamento del suo corpo. Sconcertante è la naturalezza, la scioltezza con cui supera in perfetta "nonchalance" anche i passaggi più scabrosi. Nei momenti più impetuosi sembra venir fuori da lei una forza selvaggia, forse retaggio delle sue radici armene.

 

 

INTERVISTA AL MAESTRO ANDREA LUCCHESINI

 

Alfredo Di Pietro: Maestro, è una domanda che faccio sempre all'inizio delle mie interviste: com'è nato il suo amore per il pianoforte?

Andrea Lucchesini: Era in casa, dove mio padre dava lezioni di musica ad un folto gruppo di allievi, che imparavano con lui a suonare vari strumenti. Mio padre era un musicista di grande talento, con un diploma di tromba, ma in grado di suonare praticamente tutto, a parte gli archi. Così, ascoltando la musica che suonava ed insegnava ho provato a riprodurla sul pianoforte, suscitando il suo entusiasmo e scoprendo un bellissimo gioco… avevo non più di cinque anni…
 
ADP: Lei ama molto la musica cameristica, lo dimostra, per esempio, il suo forte legame con la Società del Quartetto di Milano ma anche la partecipazione qui all'Amiata Piano Festival. Sono rimasto colpito dalla perfezione del suo stile, dal suo inserirsi con discrezione nel dialogo con gli archi in un'ammirevole fusione tecnico-espressiva. Quanto conta nel suo percorso artistico l'attività solistica e quanto quella cameristica?

AL: L’attività solistica è iniziata molto presto: già intorno ai 16 anni avevo diversi concerti e mi spostavo per suonare. Dopo la vittoria del Concorso Dino Ciani alla Scala i concerti sono aumentati di numero e di importanza, così mi sono trovato a suonare più o meno in tutto il mondo, sempre da solo.
Non posso dire di essere mai stato entusiasta di questa vita in viaggio, così, quando si è presentata l’occasione di suonare con Mario Brunello il ciclo delle composizioni di Beethoven per pianoforte e violoncello, ne sono stato molto contento.
Da allora (era il 1990) la passione è cresciuta, ed ho esplorato il repertorio – specie quello per pianoforte ed archi - in lungo e in largo, collaborando con tanti bravi colleghi di vari paesi, e penso  di aver imparato molto da ognuno di loro…
 
ADP: Lei non è certo il tipo d'artista arroccato nella sua torre d'avorio. Si è sempre speso generosamente per la conoscenza e la divulgazione della musica presso le nuove generazioni, per mezzo dell'insegnamento e delle masterclass in diverse istituzioni musicali europee. Questa lungimiranza, secondo lei, può supplire quella certa indifferenza mostrata dalle istituzioni in questo ambito?

AL: Non ho la presunzione di ritenere che la mia attività didattica possa riuscire a colmare le storiche mancanze dell’educazione musicale in Italia. Posso dire però che cerco di dare il mio contributo con convinzione: negli otto anni in cui ho tenuto la direzione artistica della Scuola di Musica di Fiesole ho partecipato ad innumerevoli iniziative tese a sensibilizzare la politica alle ragioni della musica; sono stati gli anni in cui ad esempio è nato in Italia il Sistema delle orchestre e cori infantili, sulla falsariga dell’omonimo progetto venezuelano.
Per quanto riguarda i giovani musicisti, sono felice di ascoltarli e offrire loro i consigli che sono il frutto della mia scuola (quella della grande pianista Maria Tipo) ed anche della mia esperienza di concertista che, dopo oltre trent’anni di attività, è piuttosto ampia…
 
ADP: Cosa ha significato per lei l'incontro e la collaborazione con un grande direttore come Claudio Abbado? La sua visione della musica e del rapporto con l'orchestra è uscita cambiata dopo questa esperienza?

AL: Si è trattato di un’occasione preziosa, nella quale inizialmente l’emozione per l’incontro ha avuto il sopravvento su qualunque altra: ho toccato con mano cosa significhi per un’orchestra essere "rapita" dal carisma di un direttore che, al di là del lavoro durante le prove, è in grado di creare la magia semplicemente con un gesto. Un’impressione indelebile!
 
ADP: Quanto giova alla comprensione della musica contemporanea una lettura poco "specialistica", intendendo con questo termine un tipo di espressività incline alla familiarizzazione con la sensibilità del pubblico?

AL: Il parere di Luciano Berio in merito era netto: ricordo che la nostra collaborazione partì proprio dal suo desiderio di ascoltare la sua musica nelle mani di un giovane pianista “classico”, dopo che aveva ascoltato il mio disco con l’Hammerklavier di Beethoven. In effetti credo che una eccessiva specializzazione non abbia giovato alla diffusione della musica contemporanea, mentre negli anni ho visto le composizioni più impervie ricevere un’accoglienza calorosa all’interno di un programma "misto".
 
ADP: Quali sono gli autori che ama di più?

AL: È sempre una domanda difficile, alla quale si risponde differentemente in base al momento. In questi ultimi anni, dopo una lunga frequentazione beethoveniana sto lavorando con grande entusiasmo su Schubert; nutro da sempre una forte passione per Brahms, sia nel repertorio solistico sia per la sua straordinaria produzione cameristica. Naturalmente i romantici sono per un pianista fonte inesauribile d’ispirazione, ed io non faccio eccezione: amo moltissimo Chopin e Schumann.
 
ADP: Sono rimasto colpito dalla sua interpretazione delle trentadue sonate per pianoforte di L.V. Beethoven. Le ho trovate ricche di una freschissima musicalità, molto poco paludate, cariche di tensione nei momenti più concitati, sempre dotate di un'immediata comunicativa. È indubbio come l'arte dell'interpretazione segua un cambiamento con i tempi, qual è il suo attuale approccio verso il repertorio classico?

AL: Mi fa molto piacere che il mio modo di suonare Beethoven le sia tanto piaciuto; in realtà l’incisione delle 32 sonate non era stata prevista, inizialmente. Ho tenuto gli otto concerti del ciclo presso l’Unione Musicale di Torino, dove sono stati registrati - come di prassi - per l’archivio. Solo al termine del progetto si è pensato di riunire le registrazioni in un cofanetto… Sono certo che proprio il fatto che si trattasse di esecuzioni dal vivo abbia contribuito a renderle più vive ed immediate.
In ogni caso credo che la storia dell’interpretazione abbia un andamento ciclico: oggi si è forse superato un approccio eccessivamente razionale ai classici, che era a sua volta nato dal desiderio di un maggior rispetto per il testo. La mia strada è quella di una lettura attenta e approfondita, ma non voglio in alcun modo rinunciare a comunicare ciò che sento, e che molto spesso è autentica commozione, di fronte ai grandi capolavori della musica.


Alfredo Di Pietro

Giugno 2017


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